Venerdì 26 Aprile 2024

VALTELLINA, I VIGNETI STRAPPATI AI MONTI

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di Michele Mezzanzanica

La chiamano Chiavennasca, ma altro non è che il Nebbiolo, il più pregiato vitigno italiano che in Valtellina trova la sua seconda patria d’elezione. Un territorio relativamente piccolo (meno di 900 ettari vitati per 3,3 milioni di bottiglie l’anno) e impervio, con vigneti terrazzati letteralmente strappati alla montagna, ma in grado di esprimere grande qualità, in particolare nelle due Docg del Valtellina Superiore (con le sue declinazioni Sassella, Grumello, Inferno, Valgella e Maroggia) e soprattutto dello Sfursat di Valtellina, vino sublime che si ispira in parte al Barolo (per l’uvaggio) e in parte all’Amarone (per la tecnica dell’appassimento). Una qualità poco conosciuta, però, perché la Chiavennasca oltre che autoctona è autarchica: l’80% delle bottiglie sono vendute “tecnicamente” in Italia, ma di fatto poche escono dalla Lombardia, e il 20% dell’export è in parte “drogato” da aziende elvetiche che hanno i vigneti qui e poi vendono in Svizzera. Viticoltori valtellinesi grandi profeti in patria, insomma, ma per continuare a produrre vino di qualità a costi accessibili, oggi occorre ampliare il mercato. Una necessità ben presente alla nuova generazione di produttori che sta portando avanti un’opera di “svecchiamento“, nell’immagine e nella stessa vinificazione. A Sondrio resterà sempre la Chiavennasca, ma fuori dalla Valle i rossi locali vengono presentati come “Nebbiolo della Alpi”, brand di maggiore appeal e riconoscibilità. "E’ una collocazione geografica e stilistica – precisa Aldo Rainoldi (foto), presidente del Consorzio Vini di Valtellina – produciamo un Nebbiolo che non è quello piemontese ma è il nostro, figlio della montagna, che si caratterizza per freschezza, morbidezza di tannini e sentori di frutti di bosco". Montagna che è croce e delizia dei vignaioli: coltivare qui richiede fatica, ma con il cambiamento climatico l’altitudine mette al riparo dall’innalzamento delle temperature. "La definiscono viticoltura eroica – sorride Rainoldi – ma noi non siamo eroi, siamo imprenditori. Il nostro compito è fare un vino al passo coi tempi: serve meno retorica e più cultura e conoscenza in cantina". La modernizzazione ha portato anche a un diverso utilizzo del Nebbiolo, dalla spumantizzazione alla vinificazione in rosé. "Ben vengano questi ampliamenti di gamma – commenta il direttore di consorzio – ma non dobbiamo dimenticare che i vini rossi sono quelli che ci vengono meglio e per cui esistiamo. Modernità non è fare un vino nuovo ma un vino buono, espressione delle potenzialità e delle caratteristiche del territorio".

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