
Leopardi amava i dolci e odiava la minestra
Giacomo Leopardi aveva soltanto undici anni quando scrisse un’ode in versi martelliani... "Contro la minestra". Invece della classica zuppa di latte, magari accompagnata da qualche dolcetto, a Recanati la mamma gli propinava a colazione una minestrina insipida che lui – va da sé – odiava visceralmente: "Ora tu sei, Minestra, de’ versi miei l’oggetto / e dir di abbominarti mi apporta un gran diletto / Ah se potessi escluderti da tutti i regni interi / sì certo lo farei contento, e volentieri".
Noi lo pensiamo – giustamente – come un eccelso poeta, un filosofo e un filologo, tutto chino sulla propria infelicità e sul dolore del mondo, eppure Leopardi coltivò anche una profonda passione per la cucina e le ghiottonerie: mangiare – scriveva nello Zibaldone il 6 luglio 1826 – "è un’occupazione interessantissima, la quale importa moltissimo che sia fatta bene, perché dalla buona digestione dipende in massima parte il ben essere, il buono stato corporale, e quindi anche mentale e morale dell’uomo".
E – aggiungeva il 17 luglio 1827 – pure "il piacer del vino è misto di corporale e di spirituale. Non è corporale semplicemente. Anzi consiste principalmente nello spirito". Quando poi nel 1833 si trasferì a Napoli, a casa di Antonio Ranieri, stilò di suo pugno una lista numerata di 49 piatti per lui deliziosi, che consegnò a Pasquale Ignarra, esule e cuoco sopraffino: "1. Tortellini di magro, 2. Maccheroni o tagliolini, 3. Capellini al burro" e, via via bodin di riso, frittelle di borragine, bignés di patate, selleri, ricotta fritta, pasta sfogliata, spinaci, gnocchi di latte, erbe strascinate, fino a "46. Fegatini, 47. Zucche e insalate con ripieno di carne, 48. Lingua ecc., 49. Farinata di riso".
Proprio da quel foglietto (oggi conservato alla Biblioteca Nazionale di Napoli) ha preso spunto Andrea Maia, 83 anni, già docente di letteratura italiana al liceo Alfieri di Torino, per raccontare L’Infinito gastronomico di Giacomo Leopardi, in un grazioso volume edito da Il Leone Verde. Diversamente da quanto si possa pensare, Leopardi sicuramente era attento al cibo, a "l’armonia e alla disarmonia dei sapori", e soprattutto a Napoli si appassionò ai dolci e ai gelati che – come si sa – sono spesso consolatori. "Lo aiutavano forse a compensare le carenze d’affetto della sua infanzia e gioventù – osserva il professor Maia –. L’amico Ranieri doveva spesso andare a recuperarlo nelle pasticcerie di via Toledo dove si rifugiava".
Nel suo saggio ben documentato, Andrea Maia, più che rifare le ricette di Leopardi, prova a legare le celebri creazioni del poeta ad alcuni piatti tipici dell’area marchigiana e napoletana. Immagina così che lo zappatore de Il sabato del villaggio, che torna a casa fischiettando, possa trovare sulla sua "parca mensa" un piatto di polenta con acciughe e magari una zuppa di ceci, di cui vengono fornite le ricette da seguire passo passo. E fa finire in casseruola anche i tordi e "gli altri augelli contenti", invidiati dal Passero solitario che li osserva "d’in su la vetta della torre antica", così come "la gallina, tornata in su la via" de La quiete dopo la tempesta: va portata in tavola con salsa verde piemontese e magari con i golosi struffoli napoletani. Mentre il coniglio, che ne La ginestra si rifugia nel "cavernoso covil" scavato nella lava del Vesuvio, può essere ottimo se preparato alla cacciatora.
Dulcis in fundo, però, ci vogliono gelato napoletano (con yogurt e panna freschi), deliziosi mostaccioli alla granella di mandorle e la meravigliosa pastiera, con profusione di arancio e cedro canditi. "Una volta raffreddata – scrive Andrea Maia – spolverizzatela con zucchero a velo e servitela. I vostri ospiti scopriranno come mai il poeta di Recanati ne fosse ghiotto".