Giovedì 25 Aprile 2024

Le “imprese“ coloniali in cento canzonette

Da “Faccetta nera“ a “Topolino in Abissinia“: stereotipi, erotismo e retorica razziale nella musica leggera. Non solo d’epoca fascista

Migration

di Lorenzo Guadagnucci

Pare che Benito Mussolini non amasse Faccetta nera. E meno di lui l’amavano i funzionari addetti alla propaganda: quella canzone di straordinario successo, pur intrisa di suprematismo bianco, alla fine apriva la porta ai popoli colonizzati: “Faccetta nera, piccola abissina, te porteremo a Roma liberata; dar sole nostro tu sarai baciata, starai in camicia nera pure te“. Scritta in romanesco da Giuseppe Micheli nel 1935 e portata al successo da Carlo Buti, la canzone finì per entrare in attrito con le politiche razziali (cioè razziste) del regime, che nel pieno dell’impresa coloniale si impegnò per lottare contro il “pericolo“ del meticciato e per affermare una pretesa purezza della “razza“ bianca italiana. Faccetta nera era così popolare che il regime pensò di non poterla vietare, ma almeno tentò di catturare l’attenzione degli italiani con una canzonetta alternativa, chiamata con poca fantasia Faccetta bianca. Stavolta niente bellezze esotiche cui donare “un’altra legge e un altro re“, ma una ragazza afflitta per la partenza del fidanzato verso le colonie e consolata dal giovane fascista con dolci parole e solenni promesse: “Faccetta bianca, sola mia passione mi guida il compimento del dovere verrà quel giorno che di commozione ti stringerà al suo petto il bersagliere e la tua bella faccettina stanca si poserà sulla medaglia bianca!“. Fu naturalmente un flop.

Ma non fu un flop, vista nel suo insieme, la produzione musicale connessa al colonialismo: essa fu anzi vasta, molto influente sull’immaginario collettivo e soprattutto di lunga durata, tanto da lasciare una traccia profonda nella nostra cultura. Silvano Falocco, economista ambientale appassionato di storia, ha messo insieme un ricco Canzoniere coloniale: “Le cento canzoni che non vorremmo mai aver cantato“, come scrive sulla copertina del libro che le raccoglie, ancora in attesa di un editore.

Le canzonette favorirono una percezione di comodo delle guerre di conquista, immancabilmente presentate come interventi di liberazione di popoli oppressi. Una strofa di Africa Orientale: “Con fiamme e gagliardetti e col valor degli avi, in Africa gli schiavi avran la libertà“. Al centro del “racconto“, nel Canzoniere coloniale, c’è inevitabilmente la donna – il corpo della donna – indicato con le mille tonalità dell’esotismo e dell’eros: si parla di “musetti“, “pupette“, “cioccolatini“, “africanelle“.

Scrive Felice Liperi nel suo Faccette nere, appena uscito per Manifestolibri: "Si imponeva nell’immaginario collettivo un’idea della donna africana come essere inferiore da prendere come preda esotica o adolescente bambolina". Eloquente un passaggio di Africanina! Pupetta mora!: “Piccolo fiore di orientalina, labbra carnose, dolce pupilla, tutti i tuoi figli si chiameran Balilla!“

La canzone, nei primi decenni del Novecento, era uno strumento di raccolta del consenso così potente, che fu ampiamente utilizzata dagli abili registi della propaganda per diffondere un’immagine idialliaca e liberatrice dell’avventura in Africa. Si cominciò ben prima dell’avvento del fascismo, con la guerra italo-turca del 1911-1912 e la conseguente occupazione di Tripolitania e Cirenaica, immortalata nella notissima Tripoli bel suol d’amore: “Tripoli, terra incantata, sarai italiana al rombo del cannon“.

Ma sarà col fascismo che il Canzoniere si espanderà con tutta la sua efficacia. Falocco prova a classificare per temi le cento canzoni: dall’eroismo al dileggio razzista, dall’ambizione civilizzatrice all’epopea del viaggio. Qualche esempio, utile a riflettere sulla permanenza di certi stereotipi: “Combatti e spera, camicia nera, (...) sventola fiero la tua Bandiera che insegna al mondo la Romana civiltà“ (Combatti e spera); “Porteremo a quella gente molte casse di sapon, per levargli, interamente, quell’odore di capron“ (Non piangere biondina).

Faccetta nera e Giovinezza sono considerate le canzoni più popolari del Ventennio, ma secondo certe stime, citate e accreditate da Igiaba Scego, scrittrice italo-somala e attenta studiosa del nostro colonialismo, fu ancor più popolare un’altra canzone, Topolino va in Abissinia, firmata da Fernando Crivelli, in arte Crivel, interprete di brani notissimi come Maramao perché sei morto? e L’ora del Campari. "Il testo di Topolino va in Abissinia è atroce", scrive con tono lapidario Igiaba Scego. E come darle torto, se pensiamo che vi si parla, con sconcertante leggerezza, quasi giocosa, dell’uso in guerra di gas asfissianti. “Ho la spada, il fucile, una mitragliatrice sulle spalle e mezzo litro di gas asfissianti nella borraccia“; e nel coro dei soldati: “Ora andiamo con ardore il nemico a sterminare e il vessillo tricolore dovrà sempre trionfare“.

Siamo nel 1936, quindi il racconto del crimine di guerra avviene in presa diretta e a mezzo canzonetta, fra il serio e il faceto. E dire che il caso dei gas usati in Abissinia sarebbe esploso in Italia solo negli anni ’60 coi libri di storia di Angelo Del Boca; notissimo lo scontro con Indro Montanelli, sicuro che i gas non furono impiegati, ma che alla fine, negli anni ’90, riconobbe le ragioni di Del Boca. Come già era stato scritto nelle allegre e popolari canzonette.

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