Mercoledì 24 Aprile 2024

Elena la brava sposa, Penelope l’ingannatrice

Alle radici del mito, ora ribaltato: un saggio di Ieranò libera le due donne dagli stereotipi e restituisce i chiaroscuri con cui le disegnò Omero

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di Chiara Di Clemente

Elena e Penelope sono passate dal mito allo stereotipo in un battibaleno: la donna traditrice e la donna fedele. Il tradimento e la fedeltà. Fin da subito, o quasi, alle due sono stati sottratti tutti i chiaroscuri con cui le ha dipinte, alla nascita, Omero. "D’altronde è destino dei classici – spiega Giorgio Ieranò professore di letteratura greca all’Università di Trento – divenire oggetto di letture un po’ semplificatorie. Già nel dramma satiresco Il Ciclope di Euripide si narra di questa Elena che ama spassarsela coi bei giovani e che appena vede un bel ragazzo perde la testa e va via. Tocca a tutte le grandi figure letterarie – anche moderne, come Don Chisciotte o Don Giovanni – nascere in maniera complessa, sfumata, poliedrica e poi essere ridotte a simboli, a manichini".

L’importante è saperlo: sapere che sì, vennero alla luce nella Grecia maschilista e patriarcale del IV-V secolo, nell’Atene che subordinava la donna all’uomo, "l’uno comanda, l’altra è comandata" come scriveva Aristotele: la moglie chiusa nell’òikos (casa), tenuta lontana dalla politica, dalla guerra e dal mythos, ovvero dalla possibilità di raccontare storie. Insomma Elena e Penelope nascono sì qui, però fin dalla loro nascita Omero le sottrae – a dispetto degli stereotipi in cui sono state poi ingabbiate – alla condanna di vivere in un’unica dimensione.

Nel suo saggio Elena e Penelope. Infedeltà e matrimonio (Einaudi) Ieranò fa proprio questo: libera le due ragazze dalle catene del ruolo subordinato non già al maschio, ma al luogo comune. Drammatizziamo, dunque, perché non è solo una questione di corna: l’Elena originale di Omero non è solo la bellissima traditrice che lascia la ricca (e più libera) Sparta del marito Menelao e della figlia Ermione per amore di Paride, e per fuggire con lui a Troia scatenando così la guerra dell’Iliade ma – nell’Odissea – è anche la regina redenta che, tornata al fianco del marito, intrattiene gli ospiti mostrando i suoi talenti di singolare aedo donna, e cura le loro pene, con la padronanza di saperi arcani, tramite pozioni miracolose. Così come Penelope – anche lei bellissima – non è solo la saggia e modesta moglie devota in perenne casta attesa del ritorno del suo Odisseo, ma è anche la furba tessitrice dell’inganno in cui cadono i Proci, e dai Proci – nell’Odissea – appare comunque ambiguamente attratta, quando "ride senza una ragione" alla decisone di truccarsi per mostrarsi loro in tutto il suo splendore.

Su Elena, in più, grava anche il peso della questione della responsabilità: a indurla a tradire non è solo la sua “natura canina“ ("sono una cagna spaventosa, capace di tramare ogni malvagità", dice di sé nel IV canto dell’Iliade), ma contribuiscono non poco i capricci degli dei, le sentenze e l’intervento di Afrodite ed Eros. Insomma: colpevole o vittima? "Attraverso queste figure e soprattutto attraverso una figura come Elena – spiega Ieranò – i Greci ci hanno fatto un discorso sulla condizione umana, su quanto effettivamente noi siamo padroni delle nostre scelte, quanto effettivamente scegliamo quello che poi ci troviamo a fare, quanto determiniamo la nostra esistenza. Quando amiamo o desideriamo qualcuno, siamo noi, è dalla nostra interiorità che nasce questo sentimento o c’è una forza superiore che non siamo in grado di controllare che ci travolge? Ecco, Elena è l’icona non solo del femminile ma proprio dell’impossibilità dell’uomo di autodeterminarsi totalmente e di comprendere quali siano tutte le forze che guidano l’azione, decidono i desideri, portano persino l’uomo apparentemente più saggio a fare scelte assurde, sconsiderate, che lo conducono alla rovina. C’era – nell’antichità come oggi – il momento della domanda: perché ho fatto questa cosa? Perché, come la stessa Saffo s’interroga, Elena arriva a giocarsi in un soffio tutta la vita? È un enigma: l’enigma del desiderio, ma anche della condizione umana in generale".

Liberati dagli stereotipi, i miti raccontano già tutto di noi. È per questo che continuano ad affascinare: non a caso la storia d’amore tra Achille e Patroclo nel libro di Madeline Miller è diventata in questi ultimi mesi un culto anche tra i nostri ragazzini... "Raccontare storie di sentimenti, passioni, dolori anche omosessuali attraverso le figure del mito significa raccontarle con tutte le ambiguità, le sfumature e i chiaroscuri – spiega il professor Ieranò – . L’adolescente che soffre le incertezze tipiche sulla sua identità si ritrova nelle figure mitologiche che per la loro natura poliedrica vivono di contrasti; si ritrova in loro molto più che in figure tutte d’un pezzo, modelli di bontà o di cattiveria legati magari all’educazione cattolica o marxista. I miti, semplicemente, riconducono il racconto alla riflessione sulla condizione umana: una cosa che – postideologica, senza intenti precettistici – è arcaica, profonda, atavica. Achille era un ragazzo e dice: io sono come te, anch’io vivo di contraddizioni, ho le mie rabbie. Non ho nulla da insegnarti ma nella mia storia così intricata ci puoi leggere i tuoi dubbi, i tuoi dolori. Per questo i miti greci, bene o male, funzionano da sempre".

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