Venerdì 26 Aprile 2024

Dal Brasile a Pesaro "Il vasto mondo è il mio compagno d’ispirazione"

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di Olga Mugnaini

"Al centro della mia scultura c’è l’uomo, con tutte le sue debolezze e le sue grandezze, le sue malinconie e le sue tragedie, le sue gioie e le sue speranze". Giuliano Vangi è un artista che ha attraversato e dominato gran parte del Secolo Breve, entrando poi nel terzo millennio con la lungimiranza di un vecchio saggio e la freschezza di un ventenne. Nelle sue forme, pulite, essenziali eppure così complete, c’è la forza dell’incessante e quotidiano lavoro su disegni, bozzetti, cera, pennelli, scalpelli, libri, ricordi. Sono gli strumenti che aprono il suo universo di ricerca, per dilatare all’infinito la sua creatività. Nato a Barberino di Mugello nel 1931, adesso vive a Pesaro dove lo adorano, stanno per dedicargli un museo e dove sarà testimonial per Pesaro capitale della cultura del 2024. Ma la sua arte si è nutrita di mille luoghi, vicini e lontani. E’ partito dal figurativo e accademico periodo fiorentino all’Istituto di Porta Romana e all’Accademia di Belle Arti, per passare al Brasile e all’astrattismo sul finire degli Anni Cinquanta.

Per tornare poi ’all’ordine’ in Italia e innamorarsi di nuovo dei volumi e delle forme ben definite, con l’uomo al centro, con la sua struttura plastica, il suo esterno ma anche il suo interno: "La persona è fatta di volumi, ma anche di sangue che circola. La sfida è rendere le sculture materia viva". Varese, Roma, di nuovo Firenze, Pietrasanta e poi definitivamente le Marche, dove si è spostato, è diventato nonno di sette nipoti, e dove lavora in uno studio luminoso e silenzioso, invaso solo dalla musica del mare.

Maestro Vangi, la sua carriera sembra un viaggio intorno al mondo.

"In un certo senso lo è. Sono nato nella terra di Giotto, Andrea del Castagno, Beato Angelico, della mamma di Masaccio, e forse qualcosa vuol dire. A vent’anni la mia famiglia si è trasferita a Firenze ed è lì che ho iniziato, all’Istituto d’Arte. Uno dei miei primi insegnanti fu Bruno Innocenti, allievo di Libero Andreotti. Ma per un po’ mi è toccato studiare anche architettura, perché i miei genitori ritenevano che lo scultore non fosse un vero mestiere".

Il caso ha voluto che da artista lei abbia lavorato al fianco di grandi architetti, fra cui Renzo Piano e Mario Botta.

"Sì, con Piano ho realizzato una scultura in pietra per un grande pulpito nella basilica di Padre Pio a San Giovanni Rotondo, con tante figure a comporre una deposizione. Con Botta ho fatto tanti lavori. Ultimamente per la cattedrale di Seul ho scolpito un Cristo in legno dipinto, alto tre metri e mezzo, appeso su una croce nera in carbonio, con l’aggiunta di 40 metri di disegni alti tre metri, con l’Ultima Cena e l’Annunciazione, fissati in mezzo a cristalli, in modo da vedere il davanti e il dietro".

Su cosa ha concentrato l’attenzione?

"Ho fatto in modo che l’angelo e la Madonna diventassero una cosa sola. E’ un Gabriele pieno di luce che investe questa donna del popolo, l’abbraccia contornandola di luminosità. Nell’Ultima Cena invece ho dato il volto di due apostoli a Mario Botta e al sacerdote che ha commissionato il lavoro".

Dal figurativo all’astratto e ritorno.

"L’astrattismo mi è servito per liberarmi di certi aspetti più accademici e trovare il mio mondo. In Brasile ho fatto strutture astratte in metallo, in ferro e acciaio. Cercavo una certa libertà delle forme che invadessero lo spazio in una maniera diversa. Poi piano piano ho capito che questo ciclo si era esaurito. Sono tornato alla figura e sono anche rientrato in Italia".

Adesso infine la grande mostra al Mart di Rovereto.

"E’ stato Vittorio Sgarbi a propormi quest’esposizione pensata come confronto con l’antico, che è stata davvero molto impegnativa ma anche entusiasmante, perché le grandi opere parlano attraverso i secoli e hanno sempre cose nuove da dire, in tutte le epoche".

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