Mercoledì 24 Aprile 2024

Aguyar, l’ex schiavo nero che fu garibaldino

Uruguaiano di genitori africani, analfabeta, combatté al fianco dell’eroe dei Mille e lo seguì in Italia. Morì a Roma, che ora lo celebra

di Francesco

Ghidetti

L’anno è il 1861. Negli Usa comincia la guerra civile Nordisti contro sudisti, per semplificare. Il presidente Abramo Lincoln ha un’idea: perché non affidare la spada di comandante delle truppe unioniste (i nordisti, per intenderci) a Giuseppe Garibaldi? Scrive una lettera al fresco eroe dei Mille. Il quale è entusiasta. Ma ha una domanda da porre al leader americano: come la mettiamo con l’abolizione della schiavitù? Lincoln non risponde e allora Garibaldi non parte per il Nordamerica (ci sarebbe stata pare, una risposta nel 1863, ma la questione ci porterebbe troppo lontano). L’episodio serve a delineare con efficace semplicità l’“ideologia” garibaldina. Altro che patriota tout court. E infatti è notizia di questi giorni della “riscoperta” di un ex schiavo analfabeta, Andrès Aguyar, celebrato (finalmente) a Roma con la realizzazione di un busto di marmo a lui dedicato. Perché a Roma? Perché, il 30 giugno del 1849, morì in vicolo del Canestraro (ora via dei Panieri) dopo essere stato colpito da una granata francese.

Erano i tempi della difesa della Repubblica romana, difesa che vedeva in Garibaldi il suo eroe. E in Andrès il leale braccio destro. Ma andiamo con ordine. Andrès era detto “il Moro” di Garibaldi perché ex schiavo nero uruguaiano. "Un moro di vaste proporzioni – scrive il volontario Gustav von Hofstetter – che l’aveva seguito d’America, in mantello nero con una lancia guarnita di rossa banderuola". Aggiunge l’artista olandese Jan Koelman: Aguyar? "Un Ercole color ebano". Un Ercole ombra del Generale di cui, però, si sa poco. Un antico studio di Ivan Boris sugli anni di Garibaldi in Sudamerica (lì restò in esilio dal 1835 al 1848) ce lo descrive così: "Nato presso Montevideo da genitori africani, era domatore di cavalli in una estancia. Prese il nome di Aguyar poiché i suoi genitori erano stati schiavi del generale omonimo. Al Salto (celebre battaglia uruguaiana in cui Garibaldi mostrò tutta la sua intelligenza guerrigliera, ndr) combatté nella seconda compagnia". Di lui Garibaldi diceva: "Era una di quelle paste d’uomini che la natura formò per essere amati, tranquillo, buono, freddo davanti al pericolo, di coloro che quando forcano un cavallo vi innamorano per la leggiadria e il garbo con cui si lanciano e si osano in sella".

Andrès non sapeva né leggere né scrivere. Ma, nonostante ciò, fu nominato tenente di stato maggiore. Era il primo maggio 1849. Un mese dopo tenne a battesimo una bambina dimostrando però tutto il suo disprezzo per i preti (altro “must” garibaldino): al parroco diede ventiquattro baiocchi di carta. Ai poveri, fuori la chiesa, donò monete d’argento. Poi, il 30 giugno, il giorno fatale. Garibaldi lo pianse, Garibaldi l’animalista: proprio a Andrès aveva affidato la cura di un cagnolino. Si chiamava Guerrillo. Durante la battaglia di San Antonio scappò dalle linee argentine per rifugiarsi dagli italiani della Legione garibaldina. Diventò un fedele compagno di Garibaldi e Andrès, aveva solo tre zampe e correva all’ombra dei cavalli dei due eroi.

Formidabili quegli anni che anticipano l’Eroe animalista e cosmopolita. Un eroe, come scrisse Antonio Labriola nel 1888, in cui i "popoli dell’avvenire più liberi, più consci dei loro diritti, più sinceri più pronti al sacrificio, ricorderanno Garibaldi qual geniale precursore delle idee dell’umanità redenta; e la sua gloria crescerà nella voce dei secoli come in coro, che parrà poema". Il poema della libertà, il poema che azzanna gli sfruttatori di tutto il mondo. E che libera gli Andrès Aguyar.

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