
Tel Aviv, 6 luglio 2025 – Per la terza volta negli ultimi sei mesi Benyamin Netanyahu è partito ieri per un nuovo incontro con Donald Trump (“Il migliore amico che Israele abbia mai avuto alla Casa Bianca”) in quella che il capo dello Stato Isaac Herzog ha qualificato “una missione critica. Le decisioni sono difficili, ma sono fiducioso che il governo sia all’altezza”. Sulla scaletta dell’aereo ufficiale ‘Ala di Sion’ Netanyahu ha osservato che la sua partenza avviene all’indomani di “una vittoria gigantesca sul nostro comune nemico: l’Iran, che voleva eliminarci”. All’orizzonte ha dunque intravisto nuove occasioni: “È possibile – ha annunciato agli israeliani – allargare il cerchio della pace, ben oltre quanto potessimo immaginare. Abbiamo già cambiato il Medio Oriente in maniera irriconoscibile e adesso possiamo lavorare ad un futuro più grande per Israele e per la regione”. Ma sul piano pratico l’obiettivo immediato – già domani a Washington, alla cena di lavoro con Trump – è la tregua a Gaza ed il recupero degli ultimi 50 ostaggi, 20 dei quali ritenuti ancora vivi: “Sono determinato – ha promesso – a riportarli tutti indietro”. Netanyahu resterà a Washington per una settimana e si tiene pronto a un annuncio presidenziale circa la tregua. Ad alcuni ospedali è stato chiesto di tenersi pronti ad accogliere ostaggi che fossero liberati.

Il progetto di tregua sottoposto ad Israele e a Hamas è stato elaborato dal consigliere di Trump Steve Witkoff, e ricorda da vicino quello crollato a marzo. Parla di un cessate il fuoco di 60 giorni in cui parte degli ostaggi (10 vivi, 18 morti) sarebbero rilasciati in cinque scaglioni, in parallelo con l’ingresso immediato di cospicui aiuti umanitari a Gaza e con un graduale ridispiegamento delle forze israeliane nella Striscia, dove adeso occupano circa il 65 per cento del territorio dopo aver costretto buona parte della popolazione a stringersi nell’estremo sud, fra Rafah e Khan Yunis.
Sia Israele sia Hamas hanno accettato il piano Witkoff, ma ciascuno con accenti diversi. Adesso, su richiesta stringente di Trump, i loro emissari sono impegnati in contatti a Doha, con la mediazione del Qatar. La sensazione diffusa è che si tratti di giorni critici. A Doha l’esponente di Hamas Halil al-Haya è stato affiancato ieri dal leader della Jihad islamica Ziad Nahale. Hamas – affermano siti arabi – vuole l’ingresso quotidiano di 400-600 camion di aiuti umanitari (cibo, medicinali, combustibile, materiale per la costruzione) e insiste affinché la distribuzione sia affidata da agenzie dell’Onu. Chiede anche l’apertura del valico di Rafah con l’Egitto per consentire l’evacuazione di 20 mila feriti di guerra. Vuole poi un ritiro iniziale dell’Idf alle posizioni che manteneva il marzo scorso, prima della cruenta offensiva ‘Carri di Gedeone’.
In prospettiva, secondo Hamas, il ritiro israeliano dovrà comunque essere totale. E qui la diplomazia Usa (assieme con il Qatar e con l’Egitto) dovrà dare il meglio di sé perché Israele non intende affatto a rinunciare alla parte sud della Striscia dove da maggio ha organizzato – con finalità ‘anti-Hamas’ – la distribuzione di aiuti umanitari affidandola a una agenzia umanitaria statunitense, la ‘Ghf’. Quei centri di distribuzione sono stati poi al centro di gravissimi incidenti, con numerosi morti. Ieri Netanyahu ha ribadito che ogni accordo di lunga durata dovrà includere la smilitarizzazione di Gaza e l’espulsione dei dirigenti di Hamas. Un altro elemento di conflitto riguarda lo scambio degli ostaggi con prigionieri palestinesi. Fonti arabe preannunciano che Hamas richiederà la liberazione di figure di spicco fra cui il dirigente di al-Fatah Marwan Barghuti.
In Israele desta peraltro profonda costernazione la clausola del ‘Piano Witkoff’ che prevede la liberazione di otto ostaggi vivi all’inizio della tregua e di altri due al giorno 50. Quale sarà la sorte degli altri 12 ancora vivi nel sottosuolo di Gaza? Lo stesso capo di stato maggiore Eyal Zamir ha avvertito il gabinetto che l’estensione delle operazioni (anche ieri decine di palestinesi uccisi) e la lunghezza della tregua rischiano di mettere a repentaglio la vita di ostaggi. In questi giorni le loro famiglie sono impegnate in una sorta di gara crudele in cui cercano, con interviste e manifestazioni, di rappresentare la drammaticità della situazione del proprio congiunto nella speranza che il suo nome sia incluso fra i primi otto. In questo clima di tensione si è inserito il rogo di un’automobile in un bosco della Galilea: all’interno c’era il cadavere carbonizzato di un militare di 24 anni, incapace di continuare a vivere dopo gli orrori visti il 7 ottobre e poi a Gaza. “In ogni posto dove vado – ha lasciato scritto – sento sempre odore di cadaveri”.