Roma, 3 luglio 20205 – Una tregua di 60 giorni iniziali, che include la liberazione di ostaggi e la ripresa di aiuti umanitari per la popolazione di Gaza, è ormai a portata di mano secondo quanto ha riferito ieri il premier Benjamin Netanyahu durante una visita al Kibbutz di Nir Oz, a pochi passi dalla Striscia di Gaza, l’insediamento più colpito dall’efferato attacco di Hamas del 7 ottobre 2023. “Israele ha accettato i piani degli Usa” ha detto Netanyahu ai superstiti della tragedia. “Adesso attendiamo la risposta di Hamas”. Il premier sarà a Washington da Trump lunedì e, se le cose procederanno per il verso giusto, la tregua potrebbe entrare in vigore già alla fine di quella settimana. Otto ostaggi vivi sarebbero allora rilasciati, assieme con 125 palestinesi condannati all’ergastolo in Israele, e camion di aiuti umanitari sarebbero autorizzati a entrare nella Striscia. L’esercito israeliano inizierebbe allora un ritiro graduale.

Ieri tuttavia l’Idf ha operato ancora con grande irruenza colpendo in particolare una scuola-rifugio. E causando, secondo Hamas, almeno 94 vittime: 38 di queste sarebbero state colpite in prossimità dei centri di distribuzione di aiuti alimentari gestiti da un’organizzazione sostenuta dagli Usa e da Israele. Il portavoce militare israeliano Effie Defrin ha tuttavia avvertito ieri che notizie del genere rientrano in una campagna di disinformazione gestita da Hamas. “Abbiamo distribuito finora un milione di pacchi alimentari – ha affermato –. Le notizie sulle numerose morti che sarebbero avvenute vicino ai centri di distribuzione sono pura propaganda dell’organizzazione terroristica Hamas. Il sistema di distribuzione si sviluppa e lo perfezioniamo di continuo”. Ad ogni modo, una situazione umanitaria già catastrofica è aggravata dal caldo e dalla mancanza d’acqua.
Nel frattempo la diplomazia Usa opera alacremente in sintonia con Egitto e Qatar per sigillare l’accordo sulla tregua. Da Doha, l’emissario di Trump Bishara Bahbah (un intellettuale di origine palestinese) preme su Hamas affinché accetti la formula con garanzie Usa secondo cui la “tregua duratura” significherebbe in pratica la fine del conflitto. Malgrado i colpi subiti Hamas – sotto la guida del politico Halil al-Haya in Qatar e di Iz-e-din Haddad, comandante dell’ala militare a Gaza – resta un’organizzazione determinata a perseguire i propri obiettivi centrali: la fine della guerra, il ritiro totale dell’Idf da Gaza e l’avvio della ricostruzione.
Secondo il progetto con l’inizio della tregua, Israele e Hamas dovrebbero intraprendere per due mesi una trattativa su quattro punti: le modalità dello scambio di prigionieri e il rapporto fra ostaggi (vivi o morti) e detenuti palestinesi; accorgimenti di sicurezza di lunga durata fra Israele e Gaza; l’amministrazione della Striscia nel “giorno dopo” il ritiro israeliano; la proclamazione di una “tregua permanente”. Una strada tutta in salita, in cui il ruolo di Trump sarà determinante. Da Ramallah l’Autorità palestinese ha aggiunto un elemento di allarme dopo che i ministri del Likud hanno sollecitato Netanyahu ad estendere subito la legislazione israeliana sulla Cisgiordania. Israele “cerca di sfruttare per i propri fini il fatto che l’attenzione internazionale è concentrata su Gaza”, ha denunciato il consigliere di Abu Mazen Mahmud al-Habash.

Intanto anche la guerra psicologica infuria. A Gaza l’Idf lancia volantini che sollecitano la popolazione a ribellarsi a Hamas. Da Gaza replicano che l’aviazione ha sganciato contro un internet café una bomba da 230 chilogrammi, causando una quarantina di morti. “Una bomba Mk-82 – è stato spiegato – vietata dal diritto internazionale in aree abitate”. Sul web sono anche apparse le immagini di due ostaggi israeliani sepolti vivi da Hamas, che implorano la liberazione: “Siamo morti che camminano. Stiamo morendo qui, col cuore che pulsa, non ci sentiamo esseri umani”. A questo strazio si aggiunge quello di alcuni soldati di leva a Gaza che hanno affidato a Haaretz i loro tormenti: “Tutti noi abbiamo scritto nei nostri cellulari il nostro testamento”. Hanno appena 19 anni ma uno di loro, ancora in servizio a Gaza, scrive: “Ho perso la volontà di vivere”.