Mercoledì 24 Aprile 2024

La fatica di vivere sotto il mostro d’asfalto. E riuscire a non vederlo più

Ponte Morandi, l'analisi della psicologa

Ponte Morandi nel 2006 (foto di Gian Carlo Franceschetti)

Ponte Morandi nel 2006 (foto di Gian Carlo Franceschetti)

Genova, 20 agosto 2018 - La vita a ridosso del ponte Morandi non deve essere mai stata facile. La popolazione che da anni viveva sotto il ponte, sovrastata dai piloni che poteva quasi toccare dalle proprie finestre, ha attraversato negli anni diverse fasi di adattamento a una situazione cui nessuno oggi si sottoporrebbe spontaneamente. Le case dei ferrovieri, quelle oggi così tanto fotografate, sono sorte prima del ponte, quando negli anni ’50 le Ferrovie vollero dare alloggio ai propri dipendenti, impiegati nello snodo proprio di fronte. Immaginiamo la soddisfazione di queste famiglie, che trovavano così casa e lavoro, in un’Italia che sembrava promettere un futuro di progresso.

Gradatamente queste famiglie riscattarono gli alloggi, che divennero di proprietà, assumendo un ulteriore significato di radicamento e sicurezza. Quando fu costruito il ponte Morandi, così come in altri casi, non ci si curò affatto dell’impatto che quel mostro d’asfalto avrebbe avuto sulle persone che vivevano in prossimità. Le famiglie si rassegnarono, né d’altro canto avrebbero potuto con le loro sole forze opporsi al ‘progresso’, parola a cui si dava ancora un significato rassicurante e positivo.

Lì c'era il loro lavoro, la loro vita. Le persone si sono perciò adattate, trovando la quadra tra disagi, timori e necessità di mantenere un senso di stabile continuità nella propria vita. In assenza di una alternativa alla loro portata, le persone hanno adottato la difesa della ‘negazione’ e quella della ‘scissione’. In altre parole, il ponte non lo vedevano quasi più, come se si fosse fuso con il paesaggio. Nel 2006, recatami sul Polcevera per fare una rilevazione su come gli abitanti percepissero quel mostruoso edificio proprio sulle loro teste, alla domanda "che ne dice del ponte?", mi sono sentita rispondere, "quale ponte?".

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Ricordo di aver guardato in alto, verso i piloni giganteschi, con senso di sgomento. Poiché la negazione è utile alla sopravvivenza psicologica immediata ma ha una copertura ridotta, fiorivano tra gli abitanti leggende metropolitane sulla possibile caduta del ponte e su un disastro prossimo venturo. La paura si era annidata nelle pieghe della coscienza, pronta a manifestarsi sotto forma di storie di fantasmi. La comunità del ponte Morandi, oggi sfollata, sta affrontando un percorso di adattamento ancora più difficile e delicato. Lo Stato che negli anni ’60 ha imposto le proprie scelte era ancora uno Stato che riservava anche delle promesse.

I cittadini sotto il ponte potevano sentirsi inclusi in un grande progetto di futuro che esaltava il potervi appartenere. Oggi lo Stato è percepito non solo come fonte di gravi omissioni, ma come possibile fonte di pericolo. Il ponte Morandi crollato è il segno che nessuna delega in bianco può essere data. La paura, emozione fondamentale per la sopravvivenza umana, produce la necessaria spinta a voler conoscere che terreno abbiamo sotto i piedi, senza più il rifugio della delega e il ricorso alla negazione. Cittadini informati, chiamati alla partecipazione sulle decisioni che li riguardano, sono la risposta psicologicamente sana che può condurli verso un adattamento di grado più evoluto.

di MARIA TERESA FENOGLIO *Docente di Psicologia dell’Emergenza all’università di Torino