Giovedì 25 Aprile 2024

Covid, dagli industriali alla Champions: le pressioni per non chiudere tutto

Tre anni fa Bergamo veniva travolta dal Covid. Ma eventi sportivi, manifestazioni e lavoro andavano avanti. Il ricordo del farmacologo: "È vero, bisognava fare la zona rossa anche ad Alzano Lombardo e Nembro"

Salvatore Mazzola, di Nembro. Nella prima ondata ha perso il padre

Salvatore Mazzola, di Nembro. Nella prima ondata ha perso il padre

Il ricordo del professor Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, torna a quelle giornate di fine febbraio 2020 quando in provincia di Bergamo il contagio dilagava incontrollato. "Era spaventoso – racconta – e mi restano impresse le parole che rivolsi a un amico: qui moriamo tutti. La prima cosa da fare era stare vicini agli ammalati, cercare di salvare le loro vite. Ero e resto convinto fosse giusto applicare sui territori di Alzano e Nembro gli stessi provvedimenti presi per Codogno – spiega –, ma comprendo che la situazione era difficile da governare. Poi sulle responsabilità preferisco non esprimermi".

Il bergamasco Remuzzi, che fu il primo a vaccinarsi all’ospedale di Alzano Lombardo, in un luogo simbolo, guarda al passato con la convinzione che "dobbiamo prepararci alle prossime pandemie che inevitabilmente verranno". Il recente passato ha visto Nembro e Alzano, paesoni che insieme contano 25mila abitanti, su un territorio esteso dalle porte di Bergamo alle prime aree di montagna, finire al centro di un balletto di "omissioni e ritardi" che secondo l’inchiesta della procura orobica avrebbero accelerato la diffusione del Covid. Solo il 2 marzo 2020, nel corso di un incontro con l’allora presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, il Comitato tecnico scientifico aveva evidenziato "la necessità di ’misure di limitazione di ingresso e uscita oltre che distanziamento sociale’", ossia di istituire una zona rossa ad Alzano Lombardo e Nembro. Zona che poi non venne istituita. Il presidente dell’Istituto superiore di sanità, Silvio Brusaferro, e altri – tra cui componenti del Cts indagati per epidemia colposa assieme al governatore lombardo Attilio Fontana, a Conte e all’ex ministro Speranza – avevano "a disposizione", almeno dal 28 febbraio "tutti i dati" per "tempestivamente estendere" la zona rossa anche alla Val Seriana.

Ma questo provvedimento, a differenza di Codogno, non fu preso. Nonostante l’impennata di contagi prima del 26 febbraio, quando nella zona ci furono i primi morti registrati come casi Covid. A fare da detonatore anche manifestazioni ed eventi sportivi, come la partita Atalanta-Valencia che si era disputata il 19 febbraio allo stadio di San Siro, e i contatti sui luoghi di lavoro in una delle province più industrializzate d’Italia. E anche gli imprenditori non volevano fermare i motori. "Di quel periodo si sta perdendo il ricordo senza costruire una memoria – spiega il medico Albino Marinoni – e senza trarre una lezione, perché prosegue lo smantellamento della sanità pubblica". Marinoni, presidente dell’Ordine dei medici di Bergamo e per decenni medico di base ad Albino, al confine con Nembro, conserva ricordi "drammatici", legati anche agli appelli inascoltati lanciati in quelle giornate convulse dai sanitari in prima linea. "Da un giorno all’altro hanno iniziato a morire persone che erano state in cura da me per 30 anni – racconta – io stesso mi sono ammalato, per fortuna in forma non grave. Da parte delle autorità c’è stata una sottovalutazione, una serie di errori. Per noi era incomprensibile il fatto che non venisse istituita la zona rossa come a Codogno. Eravamo pronti, c’era già l’esercito schierato, ma non è stato fatto nulla". Riccardo Munda, il medico di base di Nembro che divenne celebre per la sua instancabile maratona, quando con la sua borsa di pelle visitava i malati casa per casa, senza timore del contagio, riassume le impressioni di quel periodo con una parola: "Isolamento".

A distanza di tre anni lavora ancora sul territorio, alla guardia medica. "Non istituire la zona rossa fu un errore – sottolinea – ma sono convito che ci sarebbe stato lo stesso numero di morti. Ricordo i militari, le persone terrorizzate, le sirene delle ambulanze. Io lavoravo 24 ore su 24 e sono riuscito a non perdere neanche un paziente, curandoli con due antibiotici in combinazione". La chiusura delle indagini preliminari mette un primo punto fermo, anche se la verità giudiziaria è ancora tutta da scrivere. "Emerge quella catena di responsabilità e di errori che abbiamo sempre denunciato – spiega l’avvocato Giovanni Benedetto, uno dei legali che assiste i parenti delle vittime – e si segna anche un punto importante per la nostra causa civile, con una richiesta di danni allo Stato e alla Regione per 200 milioni di euro".