Venerdì 26 Aprile 2024

Terremoto, il rebus dei segni premonitori

Il professor Boschi: giusto investire, però i terremoti non si prevedono

Terremoto, strada devastata dall'ultima scossa (Ansa)

Terremoto, strada devastata dall'ultima scossa (Ansa)

Roma, 2 novembre 2016 - "La geochimica è un campo importante, proseguire la linea di ricerca è opportuno e una raccolta di questionari tra la popolazione per conoscere i cosiddetti precursori sarebbe una cosa positiva. Ma da qui a pensare che così si potranno prevedere i terremoti, ce ne corre…». Il professor Enzo Boschi, per 12 anni presidente dell’Ingv, che diventano 28 considerando la presidenza dell’Istituto nazionale di geofisica, è cauto. «Ho letto l’intervista a Fedora Quattrocchi – dice – e concordo sulla necessità di lavorare anche in questo. Ma non facciamoci illusioni, quello dei terremoti è un campo molto complicato e non ci sono scorciatoie. Anche se, pur senza previsioni, oggi non si fa tutto quel che si potrebbe».

Che cosa vuole dire? Che dovremmo comunque migliorare la qualità del costruito? «Non sarebbe poco. Anzi, è un compito immane ma dovuto. Almeno nelle aree più evidentemente a rischio».

Tipo? Può essere più specifico? «Per esempio si sarebbe potuto fare di più prima del terremoto di Amatrice. L’area attivatasi era nel mezzo di due segmenti, quello aquilano e quello umbro marchigiano responsabile della crisi sismica del 1997. Era rimasto tranquillo per molto tempo, ed era abbastanza evidente che si sarebbe presto attivato. Si potevano prendere delle misure precauzionali per mettere in sicurezza le abitazioni. Gli edifici strategici. Le infrastrutture. Questo avrebbe evitato molti morti, molti feriti, molti danni. Ma non si è fatto. E questo è grave».

Come valuta il fatto che prima di molte scosse di questa crisi sismica siano stati registrati fenomeni precursori? «È quasi sempre così, non è una cosa strana o eccezionale. Il problema è che fenomeni simili si registrano anche quando poi le scosse non ci sono. Ci ricordiamo di più di quelli che avvengono prima di una scossa e facciamo una facile equazione, mentre gli altri ce li dimentichiamo. È un meccanismo psicologico normale, in totale buona fede».

Quindi i cosiddetti premonitori, essendoci molto ‘rumore di fondo’ sono sostanzialmente inutilizzabili? «Se ci fosse una raccolta a livello nazionale e ci fossero migliaia di segnalazioni i precursori potrebbe indicare che una certa area ha uno stress. Ma fino a quando non si riesce a dare un dato quantitativo a questo stress, una dato matematico, resta una indicazione di massima, non una previsione».

In ogni caso una raccolta dati potrebbe essere utile? «Certamente sì, sia perché darebbe una indicazione in più sia perché coinvolgerebbe la popolazione, che è sempre un bene. Ma non dobbiamo pensare che i cosiddetti premonitori abbiano un potere salvifico. I precursori esistono, non lo nego, sono di natura chimica, meccanica ed elettromagnetica, e negli anni Settanta in tanti pensavano che quella fosse la chiave giusta. Ma sono seguite parecchie delusioni, prima i giapponesi, che ci avevano investito molto, poi anche i californiani si sono resi conto che il fenomeno è molto più complesso di quello che si credeva e si è capito che trovare la chiave per interpretare i premonitori non si riusciva a trovare».

E si troverà mai? «Francamente, non ne ho idea. Bisogna prima capire come funzionano le cose. Come e perché avvengono i terremoti. I parametri sono così tanti che parecchi tra noi sismologi pensano che non si riuscirà mai ad arrivare a vere previsioni».

La geochimica può servire? «Certamente, bisogna investire anche in questo. A mio avviso la geochimica può essere utile in particolare per comprendere il meccanismo focale del terremoto. Nell’Ingv, anche ai miei tempi, c’erano pochi ricercatori che si occupavano di questo, non so se adesso siano di meno, ma la linea di ricerca va tenuta aperta. Laicamente, tutto può essere utile. Se non per la previsione, per comprendere meglio cosa accade là sotto».