Mercoledì 24 Aprile 2024

Cirino Pomicino: "Una volta le crisi erano una cosa seria"

Intervista all'ex ministro Dc: nella Prima Repubblica il premier si dimetteva per molto meno

Paolo Cirino Pomicino

Paolo Cirino Pomicino

Roma, 9 agosto 2019 - «Nella Prima Repubblica bastava uno stormir di fronde per aprire la crisi. Ma ora, con questi due, Salvini e Di Maio, che hanno trovato l’America, non sembra sufficiente, o fa fatica a esserlo, neanche quello che è accaduto al Senato l’altro giorno. Eppure, una scena come quella vista a Palazzo Madama, con due rappresentanti del governo che dai banchi del governo dicono cose opposte, non si è mai vista dall’Unità d’Italia a oggi». Paolo Cirino Pomicino, ministro democristiano di lungo corso, plenipotenziario della corrente andreottiana, arguto osservatore di fatti e misfatti politici, non è uno che le manda a dire: «È saltata la grammatica costituzionale, mancano le sensibilità istituzionali del passato. Ma che lo diciamo a fare: con questi qui parliamo straniero quando parliamo di queste cose». Insomma, siamo di fronte a cose mai viste: cos e’ pazz potremmo anche commentare. «Siamo di fronte a uno spettacolo da commedia dell’arte. Mancano solo Balanzone, Pantalone, Arlecchino, ma per il resto c’è tutto. Con tre personaggi pirandellianamente in cerca d’autore, Salvini, Di Maio e Conte. Tre signori che non sanno minimamente che cosa sia la grammatica costituzionale. Pensiamo alla scena del Senato dell’altro giorno. Due esponenti del governo che dicono cose opposte. I due vice-premier seduti a distanza sui banchi del governo a testimoniare che esistono due esecutivi. Ma che altro deve succedere perché il presidente del Consiglio salga al Quirinale?». Perché non lo ha fatto subito? «Perché non è un vero presidente del Consiglio. Ma, se è per questo, avrebbe dovuto farlo anche prima. Le sembra normale che lui e il ministro dell’Interno facciano consultazioni con le parti sociali separatamente? Aggiungo un’altra anomalia. Quando il presidente del Consiglio dichiara in conferenza stampa che la Torino-Lione va fatta e il principale partito della maggioranza fa presentare una mozione che contraddice quello che ha detto il premier, insisto: ma che altro deve accadere perché Conte vada al Quirinale per dimettersi». Così avrebbe fatto un presidente del Consiglio della Prima Repubblica? «Non così. Si sarebbe dimesso per molto, molto meno. Nella Prima Repubblica era sufficiente, per aprire la crisi, un evento parlamentare, una dichiarazione polemica significativa, la presa di posizione di un leader». Un ricordo al volo? «Ricordo la caduta del governo Goria. Ebbe una sfilza di franchi tiratori contro che facevano decadere i bilanci dei ministeri, Istruzione, Beni culturali, in odio a questo o quel ministro. Era un segnale. Goria lo capì subito e salì al Colle. L’altro ricordo è quello del governo Tambroni, appoggiato dall’esterno dal Movimento sociale italiano. In quel caso furono i moti in piazza a farlo venire giù. Ma anche il governo De Mita finì con una presa di posizione dei socialisti. Aggiungo che anche nella Seconda Repubblica Renzi e D’Alema si sono dimessi senza tanto tergiversare di fronte a eventi considerati delegittimanti». Quale lezione ne trae? «Che in passato i presidenti del Consiglio capivano per tempo che era giunta la fine del loro governo. C’era una sensibilità costituzionale talmente elevata che, dinanzi al minimo stormir di fronde, ne pigliavano atto e ne traevano le conseguenze». Perché è saltata quella che chiama ‘grammatica costituzionale’? «Perché siamo entrati nel regno del disordine costituzionale. Perché Di Maio e Salvini hanno trovato l’America: nella totale assenza di collegialità di partito, decidono in due, e il Parlamento manco discute, ratifica. Eppure, neanche i grandi politici della Prima Repubblica hanno mai pensato che si potesse fare a meno delle direzioni collegiali dei partiti. Anzi, le racconto un aneddoto». Prego. «Un giornalista disse a Andreotti mentre entrava a Palazzo Chigi dopo la formazione del suo ultimo governo, nell’89: ‘Presidente ancora una volta a Palazzo Chigi. Ma se lei avesse tutti i poteri nelle sue mani che cosa farebbe?‘ ‘Farei qualche errore in più’, rispose».