Mercoledì 24 Aprile 2024

"Vogliono uccidere la satira, io ci rido sopra"

Un film, un nuovo spettacolo, una carriera da comico dissacrante e impegnato: ora Paolo Rossi sfida il politicamente corretto

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di Claudio

Cumani

Il politicamente corretto sta uccidendo la comicità? "C’è un tentato omicidio in corso – sogghigna Paolo Rossi – ma la vittima resiste, pur avendo subito seri attentati". Chi meglio di lui, uno degli attori più dissacranti e sensibili al sociale, può parlare di satira, pensiero unico e cancellazione della memoria? Fresco del successo al festival di Venezia del film Acqua e anice di cui è protagonista e in procinto di imbarcarsi nella tournée teatrale del nuovo spettacolo Per un futuro, immenso repertorio, il sessantanovenne signor Rossi sulla questione ha idee molto chiare. "Il politicamente corretto – dice – ha radici lontane e ha a che fare con il concetto di ‘uguale’ che imperversa ovunque. Il pensiero unico ha costruito un decalogo il cui primo comandamento è ‘fare buona impressione’. Adesso conta l’apparenza non la realtà".

E la comicità può combattere questa tendenza?

"Il pensiero comico è allegramente negativo, il pensiero unico tristemente positivo. Io sono un pessimista strategico che pratica il pessimismo per scaramanzia e per continuare a divertirsi. La soluzione sta nell’ostacolo che hai davanti. Durante il lockdown ho lavorato aggirando le regole pur nel loro rispetto. Ho fatto teatro nei cortili delle case di ringhiera e ho creato nei musei visite guidate alle prove dello spettacolo".

Come se la passa la satira?

"Segue il proprio tempo fra alti e bassi. Basta studiare i classici per capire che si possono attraversare momenti bui. A mio avviso, stiamo uscendo dal tunnel. Viviamo in una società senza narrazione che è terreno vergine per noi cantastorie. Al momento c’è una satira depurata come il caffé senza caffeina, il contenuto senza pensiero, i partiti riformisti senza riforme..."

Da dove nasce la risata?

"Il riso sano viene dalla parte oscura di ognuno di noi. Il pensiero omologato vuole che siamo tutti felici, positivi e immortali e oggi la parola proibita non è gay o negro ma morte. Come diceva il mio maestro Jannacci, non c’è divertimento a vivere da malati per morire da sani".

Cosa rappresenta oggi un comico?

"Un genere di conforto nobile, laico, politico. Forse chi fa il mio mestiere si è preso troppo sul serio e non ha capito che pratica solo sano intrattenimento. Io ho compreso il senso di questo lavoro soprattutto raccontando storie nei cortili. La satira ha bisogno di bersagli che non possono più essere solo i potenti. Certo è che per fare satira, oltre al talento, ci vuole coraggio".

Lei è stato molto censurato...

"Sì, ma non ho mai fatto la vittima, anche perché sapevo che quando la Rai mi censurava mi ritrovavo la fila in biglietteria a teatro. Del resto la comicità, come l’arte in genere, è nata per distruggere e non costruire".

Ha avuto molti nemici?

"Ho incontrato falsi amici, gente che stava dalla mia parte e che si è rivelata pericolosa. Perché il denaro, si sa, corrompe. Amo la coerenza e non mi posso comportare nella vita in modo diverso da quello che racconto sul palco. Credo nel valore politico, etico e terapeutico delle storie".

Quando cita la democrazia recitativa a cosa si riferisce?

"A quella traccia che parte da Reagan e arriva a Zelenski che riguarda colleghi che sono passati oltre la linea".

Perché non parla volentieri dei tempi di Gaber, Fo o Jannacci?

"Sul palco racconto quegli incontri, i trionfi e soprattutto i fischi. Ma non mi va di parlare pubblicamente della loro influenza per rispetto a giovani artisti che si sentono oppressi dai padri fondatori. Credo che si debba smettere di celebrare i geni scomparsi e di rincorrere ogni anniversario".

Lei però è stato un protagonista della stagione del Derby...

"Una sera mi ritrovai anche una pistola puntata da un tizio perché non lo facevo ridere. Il Derby non era frequentato da bravi ragazzi e neanche molti comici lo erano. Diciamo che era un luogo borderline che piaceva a una certa malavita... leggera".

È vero che durante il servizio militare guidava carri armati?

"Certo, dentro ci stavamo in otto. Una volta un tizio mi chiamò per questo Biancaneve. Eravamo tutti piccoli... In uno sketch raccontai che avevo fatto carriera e comandavo sette sardi. Il presentatore mi interruppe e disse: ‘chiediamo scusa a tutti i sardi’. A proposito di politically correct..."

Alcuni anni fa ha interrotto l’attività per una malattia. Che le ha insegnato quel periodo?

"Dico spesso che sono stato positivo a tutto tranne che al Covid. La sofferenza, il caos mentale, i retaggi del tempo conducono alla creatività. Io ragiono come se dovessi cominciare tutto domattina".

È stato faticoso arrivare fin qui?

"La fatica l’ho provata solo due mesi da ragazzo quando ho lavorato in fabbrica. Da allora non mi sono più azzardato a sentirmi stanco".

Ha tre mogli e tre figli di madri diverse. Come gestisce la famiglia?

"Con serenità. Fortunatamente i figli vanno molto d’accordo fra loro. Mio nipote mi chiama addirittura patron".

Che cos’è per lei il teatro?

"La madre di tutte le battaglie, la forma d’arte da cui derivano il cinema e la tv. A proposito del nuovo spettacolo, sto pensando di finire con i bis in strada o al bar. È un po’ complicato ma ci sto ragionando".

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