di Lorenzo Guadagnucci
Bisogna dire che Luciano Bianciardi cominciò davvero a modo suo, sull’edizione milanese de l’Avanti!, la nuova rubrica di critica televisiva chiamata appunto Telebianciardi. Era l’edizione del 18 gennaio 1962 e lo scrittore grossetano – sotto il titolo “Dada-Umpa“ – recensiva i sabato sera di Studio Uno. Raccontava dei balletti e dei cantanti, del gusto americano per lo spettacolo – "Io dico che c’è sotto il miracolo italiano (...) Guardate. Ci sono gli aiuti americani..." – , parlava di Mina e del suo "contributo alla evoluzione della lingua, recandovi un robusto apporto di pronunzia padana" e chiudeva con le sorelle Kessler. Una chiusa impareggiabile. "Infine le gemelle bionde. Chi ha osservato bene, come ho fatto io, questi due splendidi fenicotteri, avrà notato alla fine del numero iniziale, come esse richiamano le gambe sull’ultima sillaba della strofetta. È un riunire i tacchi netto e secco, che riproduce esattamente l’alt di un reparto tedesco in formazione di marcia. Nella Wehrmacht infatti l’alt si dava sul piede sinistro, e così fra l’ordine e l’arresto il tempo era dimezzato, rispetto all’alt nostrano, un po’ sbracato". Si converrà che non era mai capitato fin lì, ne capiterà più, di leggere una “critica“ così arguta, sapida e irriverente di un balletto da sabato sera in tv. Non erano passati vent’anni dalla fine della guerra, e in un articolo sulla televisione, Bianciardi aveva messo in fila un bel po’ dei segni lasciati dal conflitto: il dominio degli Stati Uniti, il nostro insuperabile provincialismo, lo choc non del tutto smaltito dell’occupazione tedesca. E c’è il finale dell’articolo a rincarare la dose. Le gemelle Kessler, scrive Bianciardi più caustico che mai, "ora se ne son tornate in Germania. Là per i gemelli hanno sempre avuto simpatia e premure speciali. Anche ad Auschwitz nel 1944, ricordate?"
Luciano Bianciardi era così: acuto e irriverente, con punte di insolenza. Guardava la tv senza darsi troppe arie, non era tipo da pose intellettuali, ma non perdeva occasione per mettere a nudo i non detti e le ipocrisie del paese. Era un insofferente. Un intellettuale che si reputava di classe operaia, perché l’industria culturale a Milano, ai suoi occhi, non era troppo diversa dalla fabbrica sofferta da tanti immigrati: un luogo difficile, ostile, una terra promessa quasi insopportabile.
Bianciardi scrisse dei romanzi (La vita agra è del ’62) , ma soprattutto traduceva, traduceva e traduceva, un tanto a pagina, come un bracciante pagato a cottimo. E scriveva per i giornali. Dopo l’Avanti!, riprese le sue critiche televisive sul settimanale culturale Le Ore, poi su ABC, settimanale erotico-politico che ebbe un suo peso fra anni ’60 e ’70, e ancora sul mensile Notizie letterarie e su Playmen, altro giornale erotico (del resto il sesso era per il disilluso Bianciardi l’ultima ridotta della libertà).
Al Bianciardi critico tv si devono le prime fulminanti definizioni di Mike Bongiorno, il re di Lascia o raddoppia? e Rischiatutto. "I nostri presentatori della televisione – scrisse nel ’59, prima di Umberto Eco – avevano successo, e lo hanno, in quanto riassumono ed esprimono certi difetti, certe tare nazionali. Mike Bongiorno ne riassumeva più di tutti, ed ecco perché lo possiamo stimare il più mediocre, quindi il più bravo". Bianciardi apprezzava in modo speciale il maestro Alberto Manzi, "l’amico degli analfabeti", un uomo che "personaggio non è e non diventerà mai" (e questo, ovviamente, era un complimento). Nel decennale della Rai, esattamente sessant’anni fa, elogiò la riproposizione de La corazzata Potëmkin di Ėjzenštejn, un film preso in giro, prima ancora di Villaggio-Fantozzi, da una commediola di satira dei circoli cinefili, Sani da legare, firmata da Fo, Parenti e Durano. "Ho rivisto il film – scrive Bianciardi su Le Ore – in un caffeuccio di periferia, in mezzo a gente stanca e assonnata. Ma si destavano anche loro quando è il momento di destarsi". Il film di Ėjzenštejn, per lui, era un "capolavoro raro". C’è tutto lo spirito del “Teleguardone“, come si autodefiniva, in queste brevi note: la tv vista quasi per caso, l’immersione nella vita reale, il pensiero volto alla gente comune, l’indipendenza di giudizio.
Per la Rai, che pure spesso criticò senza riguardi, Bianciardi si trovò anche a scrivere un radiodramma, a doppia firma con Enrico Vaime. Andò in onda nel 1965, si intitolava Come una grande famiglia (da poco recuperato, ora è su Rai Play Sound) e racconta di un giovane aspirante giornalista che arriva a Milano nel grande quotidiano e, manco a dirlo, viene licenziato ancora prima d’essere assunto. Così era Bianciardi, con o senza tv: aspro e beffardo.