Mercoledì 24 Aprile 2024

Geniale, folle o visionario? "Solo Milovan"

Milovan Farronato è il curatore del Padiglione Italia alla Biennale Arte di Venezia 2019: «Vi porto nel mio labirinto»

Milovan Farronato è il curatore del Padiglione Italia alla Biennale 2019

Milovan Farronato è il curatore del Padiglione Italia alla Biennale 2019

Venezia, 9 giugno 2019 -  Non ama le etichette, Milovan Farronato. Curatore e talent scout, vanta una solida esperienza costellata da collaborazioni con la Serpentine Gallery di Londra e la Biennale di Istanbul, pubblicazioni, incarichi universitari e progetti curatoriali tra Modena e Venezia, Polonia e Brasile. Nato a Piacenza nel 1973, dal 2010 dirige il Fiorucci Art Trust, fondazione istituita dalla collezionista Nicoletta Fiorucci, per il quale ha ideato il festival Volcano Extravaganza che ha luogo in luglio sull’isola di Stromboli. Come prima nomina da neoministro, Alberto Bonisoli lo ha scelto come curatore del Padiglione Italia alla 58ª Mostra Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia

 Parliamo del prima: quando è avvenuto il suo incontro con l’arte? "L’incontro con l’arte non è stata una folgorazione, credo si sia trattato più di una concatenazione di eventi. Cercavo qualcosa e mi sono imbattuto in qualcos’altro che poi ho preferito. Da studente l’arte mi toccava prima attraverso certe letture e solo dopo per mezzo della visione diretta".

In un’intervista ha confidato che le opere preferisce descriverle che interpretarle: che rapporto ha con la creatività e come riconoscere i talenti pronti a emergere? "Con la creatività ho un rapporto di sana e profonda ammirazione. Talvolta diventa anche una forma di dipendenza. Forse anche per questo motivo non risolvo quasi mai una collaborazione in un’unica esperienza ma tendo a sperimentarne varie forme: curare una mostra su, intorno al lavoro di, insieme a... attraverso! I tagli e le prospettive possono essere molteplici. Avverto qualcosa che esiste al di fuori di me e che vorrei assimilare, assorbire, con cui vorrei entrare in profondo contatto. Imparo sempre da una collaborazione nuove sfumature sull’arte e sulla vita, e la realtà. L’emersione è un processo delicato e che necessita le giuste circostanze per la sua migliore manifestazione. Quando riconosco un talento giovane mi dedico a orchestrare le migliori coordinate affinché esso possa esprimersi". 

Liliana Moro, Enrico David e Chiara Fumai, tre artisti in un labirinto, con un rimando al testo di Italo Calvino del 1962: su questa idea ha costruito il Padiglione Italia, scelta da lei stesso definita una “sfida alla libertà”. Perché? "Il labirinto impone delle scelte. Una volta entrati in un labirinto  - sia esso fisico o metaforico - l’obbiettivo è uscirne, è la regola del gioco. Allo stesso tempo però il labirinto di cui parlava Calvino nel 1962, e quello che abbiamo pensato noi ispirandoci anche al suo saggio, è un labirinto in continua evoluzione, che ingloba tutte le possibilità, compresi dubbi e incertezze. All’interno del Padiglione Italia si trovano varie mostre che si manifestano in base alle scelte compiute a ogni biforcazione del percorso. In questo nostro labirinto, aperto a tutte le interpretazioni, e che abbraccia la complessità come forma di ricchezza esistenziale e cognitiva, lo spettatore è invitato a confrontarsi con alcune opere di David, di Fumai, di Moro, dedicando a ognuna di loro il tempo che crede sia necessario e riservandosi la possibilità di creare una o più narrative attraverso questi tre percorsi intrecciati. Facendo questo, potrebbe dimenticare il suo fine ultimo (quello di trovare la via di uscita), svincolandosi così dall’ideologia dell’arrivo, godendosi lo spazio e il tempo dilatato di Né altra Né questa e sentendosi finalmente davvero libero".

 Le opere si susseguono in un groviglio di corridoi senza direzioni, dove è lo spettatore a scegliere il percorso: meglio navigarlo o perdersi nel suo labirinto? "Le due cose potrebbero coincidere. Navigando ci si potrebbe perdere, ma perdendo ci si potrebbe anche ritrovare. D’altronde lo stesso Calvino esorta che l’uscita dal labirinto potrebbe non essere altro che l’ingresso a un altro labirinto. Direi allora che l’importante è godersi il transito, il passaggio, vivere questo momento appieno, senza aver fretta di arrivare o di vedere tutto. Molte delle opere che abitano il labirinto di Né altra Né questa suggeriscono al visitatore di adottare un punto di vista diverso e propongono piccole - o grandi epifanie".  

Fra le linee guida, anche la richiesta agli artisti di produrre cose nuove: c’è qualcosa che l’ha colpita particolarmente? E perché?  "Le ombre e le luci e la loro perfetta coesistenza. Un’ambiente di Liliana Moro, abbacinato dalla luce del sole (idealmente): ombrelloni aperti su un tavolo che suggerisce l’incontro e il confronto e la convivialità si manifesta oltre un porticato metafisico del nostro labirinto dove trovano spazio su una pedana disposta a croce 5 sculture di Enrico David in totale penombra. Il suo mondo umbratile, figure che spiano e moltiplicano i loro volti in un tentativo suppletivo di diventare presenze inquietanti. Il loro tenebrore, il loro romanticismo indifferente al di là della chiamata collettiva di Moro. Mi ha sorpreso come queste dimensioni cosi distanti potessero rafforzare la propria configurazione estetica e cognitiva nella loro vicinanza. Mi sono anche compiaciuto e in parte commosso quando le vetrine che definiscono una lunga parete del labirinto, un progetto collettivo in cui abbiamo coinvolto anche reperti e opere di Chiara Fumai è stato ultimato. Arte e residui significativi di fonti di ispirazione e di vita coesistevano perfettamente. Tra questi Enrico David ha voluto inserire anche un mio segreto. Se la questione principale di un labirinto è quella non di trovare la via d’uscita ma il centro, allora credo che questa vetrina museografica alternativa possa esserne di certo uno".   

Per Chiara Fumai, scomparsa due anni fa, ha condotto uno studio filologico sulle email, progetti, appunti e conversazioni che vi siete scambiati in occasione di un lavoro pensato insieme e mai realizzato: ha più interpretato o realizzato? "This last line cannot be translated, “quest’ultimo verso non può essere tradotto”: così si intitola l’opera inedita di Chiara Fumai presentata nel Padiglione Italia, che già con il suo titolo potrebbe in qualche modo rispondere alla sua domanda. È un murale su sei pareti in cui si intrecciano le parole della Messa del Chaos nella versione di Peter J. Carroll con linee frastagliate che evocano l’immagine di stalattiti e stalagmiti di una grotta. All’interno di questo perimetro, appaiono simboli e sigilli per attivare energie e intenzioni che vadano a sovvertire le gerarchie del patriarcato. Chiara, che aveva sviluppato questo lavoro in grande dettaglio, ha lasciato una serie di disegni preparatori su cui ci siamo basati per presentare una realizzazione fedele dell’opera".  

Inutile nasconderlo, di lei colpisce anche il look: capelli raccolti, smalto, abiti colorati, capaci di mescolare il suo essere maschile alla parte femminile che esprime in forma libera e solare. Un traguardo difficile da raggiungere? "Uno statement che mi sono conquistato un po’ per volta. Onestamente senza eccesso di sforzo e tanto meno di provocazione. Risposta semplicemente all’esigenza di essere se stessi e di considerarsi sempre in transito e in divenire. Non è che mi immagino con i capelli lunghi per tutta la mia vita". 

Lei è padano, il nome no: da dove ha origine? "Da un capriccio materno,  un’inaspettata nostalgia per qualche recondita origine slava che non ho. Tuttavia, nelle lingue slave la radice mil- indica uno stato di grazia, bontà d’animo, benevolenza, e questo mi sembra indubbiamente di buon augurio. Poi a me Milovan piace. Confermo che sono nato in pianura padana, sulle rive del Po, in un piccolo paese chiamato Borgonovo Val Tidone, caratterizzato da colline scandite da filari di Malvasia e Gutturnio e riparato tra le nebbie nei mesi invernali. Ho imparato a vedere Oltre".

Il suo team è composto in prevalenza da donne e madri: come sceglie i suoi collaboratori? "Credo che sia importante circondarsi di persone con esperienze e vite diverse dalla propria perché è un ambiente eterogeneo favorisce l’emergere di nuove idee e spunti interessanti. Nel caso del Padiglione, il coinvolgimento di donne e madri non è stato intenzionale, anzi, probabilmente più intuitivo! Ci tenevo a creare una squadra includendo persone che stimo e di cui mi fido. Ci siamo resi conto in corso d’opera che era importante sottolineare la prevalenza femminile della formazione perché potevamo così lanciare un messaggio nello spirito femminista anti-patriarcale di Chiara Fumai, visto che ancora oggi, purtroppo, la maternità rappresenta motivo di discriminazione sul lavoro".

Con  Sgarbi, che al suo posto si trovò nel 2011, ha fatto una lunga visita al Padiglione Italia: cosa le ha detto? E cosa pensa delle esternazioni sulla Biennale del critico più ascoltato dal grande pubblico?  "Sì, Vittorio è venuto nei giorni dell’inaugurazione e siamo andati in giro per il labirinto insieme. Ha dato una sua lettura personale, lucida e intelligente del progetto e ha condiviso con me e con gli altri presenti alcuni aneddoti della sua precedente esperienza in quello spazio. Non c’è pero stato tempo in quella occasione di confrontarsi a proposito degli altri progetti della Biennale".

 Una personalità visionaria come la sua cosa ne pensa dell’incontro fra tv generalista o piattaforme streaming e l’arte? Potrebbe essere il modo giusto per portarle ai giovani?  "È importante che l’arte non venga confinata nel museo. Fin dalla diffusione della radio e tv nel dopoguerra, gli artisti si sono interessati a questi media. Il rapporto tra l’arte e le piattaforme di comunicazione di massa continuerà sempre ad evolversi in parallelo alla nascita e sviluppo di nuove tecnologie, per esempio negli ultimi anni si è parlato molto di post-internet art. Per le nuove generazioni i social media sono una parte oramai imprescindibile della comunicazione quotidiana, tra di sé e con il resto del mondo, e per cui è naturale che questi network, come ad esempio Instagram, diventino piattaforme di diffusione anche per il contenuto artistico".

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