Giovedì 25 Aprile 2024

L’idea di Mari, design come forma di lotta

L’artista è morto a 88 anni. Vincitore di cinque Compassi d’Oro, è stato un ribelle sempre al servizio dell’uomo e non del mercato

Migration

"Di me, si scrive che ho fatto qualche oggetto eccezionale. Se questo corrisponde al vero, è forse perché non sono mai andato a scuola". Enzo Mari era essenziale e diretto, nel progettare come nel raccontare se stesso. A scuola in verità c’era andato, aveva frequentato per quattro anni le lezioni all’Accademia di Brera ma il suo percorso di studi non era stato così lineare. Veniva da una famiglia poverissima, per metà pugliese e per metà di Cerano, in provincia di Novara, dove era nato. Raccontava che a sei anni il padre gli aveva spaccato una sedia sulla schiena perché aveva fatto un buco sul terrazzo per spiare cosa succedeva nel laboratorio del fabbro lì sotto. E la famiglia non aveva una lira per farlo riparare.

Enzo Mari se n’è andato l’altra notte a 88 anni, due giorni dopo l’inaugurazione della sua mostra alla Triennale di Milano. Quei progetti raccontano la coerenza del suo pensiero, che sposava la semplicità della forma alla complessità del ragionamento da cui scaturivano. All’inizio aveva lavorato come “prospettivista” negli studi di grandi architetti, come Franco Albini e i BBPR. Come artista si era avvicinato presto a Bruno Munari e al Mac, il Movimento arte concreta, ed era stato proprio Munari a presentargli Bruno Danese che ne 1958 aveva aperto la sua galleria a Milano.

Tra le altre cose, per lui aveva realizzato “Putrella” prendendo a prestito un semilavorato da edilizia e piegandolo in modo da ricavarne un contenitore. L’anno prima era stato folgorato dal modello di abitazione di Achille e Pier Giacomo Castiglioni a Villa Olmo, a Como, e aveva capito che il design poteva essere la chiave per "dare dignità all’uomo". Era un teorico del progetto, amava guardare le cose da punti di vista diversi, mai banali. La sua autobiografia, intitolata 25 modi per piantare un chiodo, lo spiega chiaramente.

Dietro ogni oggetto – che fosse la sedia “Delfina” o “Tonietta” o il tavolo “Legato”, tre dei cinque Compassi d’Oro vinti compreso l’ultimo, alla carriera – c’era l’elaborazione di un’idea, un ragionamento magari sofferto, considerazioni rimaste coerenti con il passare dei decenni.

Era uomo di contestazione e di no Enzo Mari ne ha detti tanti. No alla "sacralizzazione dell’arte", alla sua commercializzazione, al rapporto di subordinazione al capitalismo. Nel ’68 è sulle barricate, tra i promotori dell’occupazione della Triennale di Milano e, nello stesso anno, insieme a Julio Le Parc, ritira le sue opere da Documenta di Kassel. Contesta, insieme a Enrico Castellani e Alberto Biasi, artisti dell’arte programmata, la mercificazione delle opere della Biennale di Venezia. Quattro anni dopo partecipa alla mostra di New York Italy: the new domestic landscape, curata da Emilio Ambasz, ma insieme ai suoi oggetti (tra cui la libreria “Glifo”, i vasi della serie “Bambù” e “Pago Pago”) presenta uno scritto in cui critica l’organizzazione della mostra. Era un pensatore di stampo marxista, l’industria al servizio dell’uomo e non il contrario, da sempre nemico della società degli sprechi e delle mode. "Il progetto è un atto di guerra", ripeteva.

Ettore Sottsass definì Enzo Mari "uno che insegue con più disperazione e accanimento il sogno di sottrarre il mestiere del design al suo peccato originale, di riscattarlo dalla corruzione, di metterlo a disposizione della storia malinconica della gente che cammina per strada piuttosto che delle presunzioni stizzose delle aristocrazie del potere".

C’è un pezzo di design che spiega meglio di altri il suo modo di progettare. È una formaggiera, “Java”: Enzo Mari la realizza nel 1967 per Danese. Qui, vestendo la tuta blu dell’operaio, si pone la questione di come evitare di infilare il coperchio, uno per uno, manualmente. Lo considerava un atto svilente e risolve la cosa aggiungendo una maniglia lungo la quale farlo scorrere. Questo per Arturo Carlo Quintavalle è l’esempio della ricerca di Mari per "portare la produzione industriale a una condizione di lavoro non alienante". Enzo Mari guarda chi deve produrre ma anche chi compra. E con “Autoprogettato” del 1973, sistema di assemblaggio di mobili da parte del cliente, punta a "svegliare il pubblico dalla pigrizia e dall’ignoranza per non farsi manipolare dalle mode e dal mercato". Il design come forma di lotta.

 

 

è arrivato su WhatsApp

Per ricevere le notizie selezionate dalla redazione in modo semplice e sicuro