Mercoledì 24 Aprile 2024

TRANSIZIONE ECOLOGICA, COSA SIAMO DISPOSTI AD ACCETTARE?

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SI FA PRESTO a dire "bla bla bla", come ha fatto Greta Thunberg a Milano accusando i governi di parlare troppo e fare poco per il clima. È comprensibile che quando si è giovani come lei sia tutto molto semplice, bianco e nero, e la rappresentazione della complessità appaia come una solenne fregatura. Ma trasformare un’economia, per quanto sia doveroso, non è un gioco da ragazzi. Anzi, bisogna considerare variabili delicate, perché se la transizione ecologica ha un vantaggio nel lungo periodo, nel breve comporta pesanti ricadute su aziende e lavoratori, persone e famiglie. Perseguire la sostenibilità, dice la stessa Commissione europea, avrà pesanti effetti sul mercato del lavoro e di natura sociale. Un report McKinsey prevede addirittura la perdita di 800 milioni di posti di lavoro nel mondo entro il 2040, a fronte di soltanto 110 milioni nuove posizioni che dovrebbero essere create. E se il digitale è un passo avanti dal punto di vista ecologico (oltre che di comodità ed efficienza), ha rilevanti effetti collaterali. Da un lato, produce un maggior consumo di elettricità e quindi di emissioni, che nel 2040 peseranno per il 14% del totale mondiale, cioè quanto pesano i trasporti; dall’altro, genera un problema di smaltimento dei dispositivi, visto che nella sola Ue si arriva a 11 milioni di tonnellate di rifiuti elettrici l’anno e nel mondo si sale a 53 milioni.

Insomma, non tutto ciò che appare sostenibile lo è come sembra, e l’ingenuità giovanile può anche combinare dei guai. Soprattutto, è facile prendersela con il mondo occidentale, ma oggi la Cina produce quasi 10 miliardi di tonnellate di Co2, il doppio di quella emessa dagli Stati Uniti (4,9 miliardi di tonnellate). Non solo: mentre dal 1990 l’Europa ha ridotto le emissioni di Co2 (da più di 8 miliardi di tonnellate a meno di 6), la Cina è invece passata da poco più di 2 a quasi 10. Solo in Italia, dice Confindustria, la transizione energetica implica costi per il tessuto industriale che possono superare quota 650 miliardi nei prossimi dieci anni. È vero che il PNRR prevede dei fondi per tale scopo, ma si tratta solo del 6% del necessario, a fronte di un 94% che deve essere investito dalle imprese. Entro il 2025 l’Italia dovrebbe poi chiudere le centrali a carbone attive che soddisfano tra il 5% e il 10% della domanda di energia. Significa che bisogna trovare fonti alternative, ma anche che molte aziende dovranno riconvertirsi e molti lavoratori trovare altra occupazione. Per raggiungere gli obiettivi di decarbonizzazione, inoltre, dovremmo passare da 0,8 a circa 8 gigawatt di rinnovabili l’anno, il che significa nuovi impianti di solare ed eolico (quest’ultimo soprattutto in mare). Considerati i comitati del no a tutto e tutte le altre inefficienze del sistema Italia, al momento l’ipotesi di fare a meno già entro il 2030 delle fonti fossili (carbone e gas naturale pesano ancora per l’80% del fabbisogno energetico e il 65% della produzione di energia elettrica) non appare realizzabile.

Stringendo l’inquadratura, emergono casi anche più allarmanti, dove la transizione non è impossibile, ma potenzialmente pericolosa. Morgan Stanley, per esempio, sottolinea che con il passaggio all’auto elettrica andrà bruciato il 30% di posizioni dell’industria automotive a livello mondiale. E mentre dopo il dieselgate i colossi tedeschi dell’auto hanno effettuato investimenti per oltre 70 miliardi sui nuovi modelli elettrici, le migliaia di pmi italiane fornitrici di componentistica, si trovano ad affrontare la transizione senza adeguato supporto. E problemi simili ci sono per altri comparti, come l’acciaio o il cemento. Senza dimenticare che l’aumento dei prezzi del gas e del carbone è causato anche (ma non solo) da queste tendenze, che pesano sulle bollette delle famiglie e delle imprese. Sia chiaro, tutto questo non significa che la transizione non debba essere un obiettivo da perseguire. Solo che lo si deve fare tenendo conto di tutte le variabili, non a suon di slogan. Allora, è indispensabile porci alcuni quesiti: quali effetti collaterali siamo pronti a sopportare, come ci attrezziamo e come li ammortizziamo, come proteggiamo le persone che saranno colpite? Solo così si passa dalla transizione dei bambini a quella dei grandi.

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