Mercoledì 24 Aprile 2024

Energia, l’Europa si gioca sulla tassonomia verde

Energia, l’Europa si gioca sulla tassonomia verde

Energia, l’Europa si gioca sulla tassonomia verde

SE ANCHE L’UE, che ha una certa tendenza a scivolare verso il formalismo burocratico (arrivando perfino a definire quale deve essere la misura delle vongole) e l’idealismo ambientalista, ha deciso che gas e nucleare possono essere considerate fonti energetiche in grado di accompagnare la transizione verde, seppure a determinate condizioni, forse è il caso che tutti quelli che ancora alzano le barricate facciano una seria riflessione. Si tratta, infatti, di una scelta pragmatica e, alla fine dei conti necessaria e inevitabile, perché senza alternative concrete. La decisione sulla tassonomia, cioè su cosa si possa considerare come fonte energetica “verde”, adottata dalla Commissione europea non ha mancato di generare contrasti: oltre alle consuete proteste ambientaliste, ci sono divergenze tra i Commissari (tre voti contrari e diverse perplessità, tra cui quella dell’italiano Gentiloni) e soprattutto tra gli Stati.

La Germania, per esempio, non vede di buon occhio incentivi al nucleare, che invece è fondamentale per la Francia. Tuttavia, alla fine la scelta è passata. Ora la battaglia si sposta al Consiglio e al Parlamento europeo, ma è evidente che siamo di fronte ad un principio di realtà: alle ambizioni ambientaliste del tutto e subito fa da contraltare il pragmatismo, che sconsiglia di spegnere queste due fonti, specie nel pieno di una crisi energetica globale e di tensioni geopolitiche con il nostro principale fornitore di gas, la Russia, pena di precipitare in un drammatico black-out. I rincari dei prezzi dell’energia di questi giorni, per dire, sono stati corroborati anche dal fatto che Berlino abbia chiuso tre centrali nucleari su sei ancora attive e Parigi ne abbia messe in manutenzione altre quattro. Insomma, la transizione energetica, con l’obiettivo comunitario di raggiungere il 70% di energia elettrica da fonti rinnovabili, è cosa buona e giusta, ma presenta pesanti effetti collaterali. Secondo una valutazione di impatto dell’Agenzia Ue per l’ambiente, da un lato, si potrebbero creare un milione di posti di lavoro in Europa entro il 2030 ma, dall’altro, provocare tra i 500mila e i 2 milioni di nuovi disoccupati. Così, a fronte di vantaggi nel lungo periodo, accelerare eccessivamente sulla transizione nel breve comporta effetti collaterali su aziende e lavoratori, consumatori e famiglie. Anche perché dobbiamo considerare che oggi la Cina produce quasi 10 miliardi di tonnellate di Co2, circa la metà degli Usa e dell’Europa. Fughe in avanti sono solo controproducenti.

Certamente dobbiamo guardare quello che succede in Europa, ma dobbiamo anche fare i conti a casa nostra. La Germania, per esempio, si guarda bene dallo spegnere le centrali a carbone (e di litigare con Putin) mentre noi programmiamo di chiudere le nostre ancora attive, che soddisfano tra il 5% e il 10% della domanda di energia, entro il 2025. E intanto non è che costruiamo alternative. Abbiamo circa 92 miliardi di metri cubi di riserve di gas che non utilizziamo, mentre si potrebbero estrarre 30 miliardi di metri cubi all’anno dal fondo dell’Adriatico per calmierare i prezzi. Per adesso, nulla. Ci sono 70 impianti di rinnovabili bloccati tra le lentezze delle burocrazie e delle autorizzazioni. Ci sarebbe da cominciare, ora, la ricerca sul nucleare di quarta generazione per non essere tagliati fuori, tra 15 o 20 anni nel caso in cui si arrivasse ad un perfezionamento della tecnologica, da una fonte sostenibile, sicura e pulita. Insomma, per spegnere le fonti fossili dobbiamo lavorare sulle alternative, prima. Perché fino a quando non saranno pronte, sarà la realtà a dirci che la transizione è impossibile.

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