Mercoledì 24 Aprile 2024

Sulle armi nessun compromesso La resa di Conte è incondizionata

La crisi è troppo grave, Draghi vuole mani libere. Previsto un passaggio in Parlamento ogni tre mesi

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di Antonella Coppari

"Ampio". Un aggettivo: è l’unica concessione che Draghi fa a Conte. Praticamente nulla. Dopo dodici ore di riunione, la risoluzione che il leader M5s è costretto a ingoiare non prevede lo stop all’invio delle armi o un voto sulle prossime mosse del governo in materia di Ucraina: solo il "necessario e ampio coinvolgimento" delle Camere, peraltro nel quadro di quanto previsto dall’oramai famoso decreto dello scorso febbraio (approvato a larghissima maggioranza) che garantisce l’invio di forniture militari a Zelensky. In soldoni, il governo mantiene la facoltà di decidere l’invio di nuove armi senza passare per il Parlamento. Dovrà solo riferire con cadenza trimestrale non necessariamente in aula ma, per quanto riguarda le dotazioni militari al Copasir (il ministro Guerini già ci è andato tre volte). Sottolinea il sottosegretario alla difesa Gioregio Mulè (FI): "Tutto resta come adesso".

Insomma, una resa quasi incondizionata. Poco prima dell’epilogo la capogruppo M5s al Senato, Mariolina Castellone aveva rifiutato un testo praticamente identico: mancava solo quell’aggettivo. Ancora sul piede di guerra (appoggiato da LeU) il leader pentastellato aveva convocato il consiglio nazionale, il vertice fiume di maggioranza era stato bruscamente sospeso. L’ipotesi di rottura sembrava dietro l’angolo, finché non è arriva il diktat ruvido che ha cambiato le carte in tavolo: "O accetti quella formulazione, e con te lo fa LeU, o il resto della maggioranza presenta la risoluzione scarna e laconica proposta da Pier Ferdinando Casini: ’ascoltato il presidente del consiglio, il Senato approva’". Firmarla sarebbe stata la "disfatta", rifiutare la firma però avrebbe inevitabilmente portato all’uscita dall’esecutivo, all’appoggio esterno e forse anche al passaggio all’opposizione.

Sulla scelta, già difficile di Conte, pesava peraltro la mossa dirompente di Di Maio: l’annuncio della scissione. Con lo strappo i 5stelle ’lealisti’ avrebbero offerto allo scissionista un alibi di valore impareggiabile, invogliando così molti tra i parlamentari indecisi a seguire il ministro degli Esteri. L’ex premier non se l’è sentita, e il capogruppo in commissione affari europei, Pietro Lorefice ha apposto la sua firma. In aula, nella brevissima replica, Draghi ha chiarito ulteriormente il concetto per chi non l’avesse capito: "Si continua sulla strada disegnato dal DL14 del 2022". Visto, sentito, approvato con 219 sì, 20 no e 22 astenuti.

Si conclude così, con la vittoria totale di Draghi, lo scontro fin troppo annunciato sulle armi all’Ucraina. Non si è trattato però di un conflitto interno alla maggioranza: nelle dodici ore di passione i partiti che sostengono il governo avevano trovato in più occasioni la convergenza su formule poi respinte da Palazzo Chigi. Il vero braccio di ferro è stato tra il premier, deciso a non concedere alcun potere decisionale al Parlamento, e la maggioranza, con il Pd alla ricerca di difficili mediazioni. L’irrigidimento di Draghi ha destato persino il sospetto che intendesse spingere verso la porta d’uscita l’ala sinistra della sua maggioranza. Probabilmente non è così, le motivazioni dell’ex presidente della Bce sono quelle di sempre: la sua linea di condotta rafforzata da una situazione globale difficile, che l’inquilino di Palazzo Chigi non vuole fronteggiare con turbolenze alle spalle. Del resto sa di poter contare sul sostegno del capo dello Stato che incontrerà oggi prima di partire per Bruxelles. E tuttavia lo scontro lascia aperte ferite che non si rimargineranno facilmente.

Sì, perché la risoluzione crea comunque in Parlamento attese che saranno deluse, destando malumori. E poi, la doppia umiliazione subita da Conte messo ko quasi senza poter salvare la faccia in parlamento e costretto a subire una scissione traumatica non potrà che lasciare rancori destinati, se il quadro peggiorasse, a esplodere.