Venerdì 26 Aprile 2024

Donna si dà fuoco, passanti la filmano. Smarrito il senso del sacro

Ormai siamo abituati a trattare ogni cosa come una storia su Instagram. Ma è la vita, non è un reality

Donna si dà fuoco

Donna si dà fuoco

Siamo ridotti come? Siamo diventati come? La vita è una storia di Instagram? Pensarlo è facile se ti spacciano influencer come modelli, se ti misurano in follower, se per quarant’anni i più celebrati intellettuali italiani hanno convinto Università e aziende che la ‘comunicazione’ è tutto.  Certo, è da dementi filmare una donna avvolta dalle fiamme come se fosse uno spettacolo da condividere. È da persone che ritengono loro diritto rubare con le immagini la vita alla vita. È da persone rese dementi – non cattive, non si tratta di giudizio morale – cioè prive di vera mente, di intelligenza del reale perché abituate, assuefatte dalla riduzione continua della vita a show. 

Anche in televisione non si fanno da anni reality? Non si fanno ‘vite in diretta’? Non si producono ore e ore di costosissimi show o serie di docufilm che si rovesciano a cascata su spettatori che forse non li avevano chiesti ma, come dice Baudelaire, sono capaci come tutti noi di «trovare charme in cose ripugnanti»? Perché va detto, nell’animo umano alberga questa opaca attitudine, questa orrida possibilità: di provare piacere o godimento di cose dolorose o orrende. Fa parte della nostra natura, non dobbiamo vergognarcene. Ma possiamo decidere se nutrirla, se enfatizzarla, se esorcizzarla in modo stupido con infinite sollecitazioni e tenebrose masturbazioni o se invece reggerla, educarla, comprenderla e combatterla.

La società della comunicazione, cosiddetta, deve nutrire i suoi nuovi imponenti business solleticando queste cose, rilanciandole, stuzzicandole continuamente. Imponenti business che non sono a vantaggio del popolo ma, come vediamo, di pochi nuovi stra-ricchi, che da questa proliferazione di immagini, di riduzione della vita a show traggono infinite ricchezze e potere. Nulla è innocente nel mondo, di per sé. Il gesto di filmare un morente o una sofferenza – a meno che non sia per seri e motivati motivi documentari – è una demenza, una colpa che sta divenendo sempre più collettiva, diffusa, perché diffuso e incontrastato è il dominio di idee e di pratiche che privano la vita di sostanza, di senso, di quel che Pasolini, Ungaretti, Del Noce e pochi con loro hanno chiamato negli anni in cui tali processi iniziarono, senso ‘sacro’. 

Se nulla è sacro, tutto è fruibile. Ovvero utilizzabile secondo gli schemi di pensiero e comportamenti dominanti imposti dagli interessi che sempre indirizzano la storia. A cui ci si può opporre con libertà e dignità, senza processi morali inutili, ma con la feroce, lucida consapevolezza di chiamare le cose con il loro nome. Si incolpino pure i dementi passanti di Crema e la sindaca della città fa bene a gridare il suo dolore. Ma si guardi bene dove siedono i responsabili, dove hanno allignato e fatto soldi e carriera, dove, giustificandosi con filosofie nichiliste e con superbia ideologica, hanno costruito le strade e i ponti per questa via alla demenza.