Mercoledì 24 Aprile 2024

Pd avvitato su se stesso L’ultima tentazione: "Cambiamo nome" Ma nel partito è il caos

"Come dobbiamo chiamarci?" L’idea di un referendum tra gli iscritti. Oggi l’Assemblea nazionale per discutere la nuova Carta dei valori. La soluzione per evitare rotture: si mette ai voti ma non sarà adottata

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di Ettore Maria Colombo

Ci mancava solo l’ultima polemica, quella sul cambio del nome del Pd (Bonaccini lo vuole tenere, Schlein lo vuole cambiare) che scoppia improvvisa, a intorbidare le acque in vista dell’Assemblea nazionale del Pd che si terrà oggi a Roma. L’ultima della vecchia gestione prima del nuovo congresso. Lo stringato ordine del giorno nasconde piccoli fuochi che ardono sotto l’unanimismo di facciata.

Dopo giorni di tensione, la quadra sul nuovo Manifesto del Pd è stata trovata grazie al faticoso lavoro del segretario uscente, Enrico Letta. Si tratta di uno di quei barocchismi tipici del Pd. Il documento sarà votato "con un dispositivo" che, in buona sostanza, lascerà aperto il Manifesto. Una mediazione tra chi (l’area Bonaccini), non vuole essere vincolata a un testo prima di sapere chi vincerà le primarie e chi, come Articolo 1, vedeva solo nell’approvazione di un nuovo Manifesto la legittimazione per il rientro nel Pd. Ma se per i bersaniani un nuovo testo è necessario, Bonaccini ricorda che c’è un congresso alle porte e che "andrà rispettata la volontà di chi viene a votare per un nuovo segretario e un nuovo gruppo dirigente". Oltre a una questione di metodo, c’è un tema di merito. Per Bonaccini, infatti, è "opportuno tenere fermo e tener fede al Manifesto dei Valori con cui il Pd è nato".

Tradotto: la forte spinta a rivedere il testo del Pd di Walter Veltroni che ha animato, nel comitato costituente, la sinistra dem, per lui non è dirimente. Due mesi di dibattito, 87 saggi coinvolti, tre riunioni plenarie hanno, infatti, partorito un mostro: la nuova Carta dei Valori del Pd mette le braghe all’iniziativa privata a favore dello "Stato regolatore", rinnega il Jobs Act, chiede il salario minimo, condanna i "fallimenti del mercato", archivia la "vocazione maggioritaria" Pd come pure la sua propensione bipolare, ma non disegna la fisionomia di un partito socialista come volevano gli esponenti di sinistra.

I riformisti, in minoranza dentro l’Assemblea, si attestano su due punti chiave irrinunciabili: "Non si abroghi" il Manifesto di Veltroni, quello fondativo, e il nuovo Manifesto sia solo una base di discussione. Ma se ne accorgono tardi e, non a caso, la sinistra li accusa di voler cambiare le carte in tavola all’ultimo. La mediazione finale è un pateracchio: il Manifesto del 2007 non verrà abrogato, ma integrato e il processo costituente resterà aperto.

Non contenti, nel Pd scoppia anche la discussione sul nome del partito. Per Bonaccini e i riformisti, non si tocca: "Parliamo di sostanza, non di nomi, comunque a me il nome Pd piace". "Teniamoci caro il suo bel nome" twitta il costituzionalista Stefano Ceccanti. Della stessa idea sono anche Gianni Cuperlo e Paola De Micheli. La provocazione la lancia Peppe Provenzano (che sostiene Schlein), il quale chiede "un referendum tra gli iscritti" sul nome. La suggestione è quella del Partito del Lavoro. La stessa Schlein entra nel dibattito: "La proposta del cambio di nome del Pd dopo il congresso lanciata da Provenzano nasce anche da Bologna, dal sindaco Matteo Lepore, ed è sicuramente un tema che può essere sottoposto agli iscritti". In sintesi, Schlein e i suoi vogliono cambiare tutto (nome, carta dei valori, identità del Pd, alleanze), Bonaccini vuole rigenerare il partito (primarie, selezione della classe dirigente, via le correnti), ma senza toccarne valori, nome, ideali di base.