Giovedì 25 Aprile 2024

Nel Far Web abbiamo perso i nostri dati

Giorgio

Triani

Se non paghi un prodotto, il prodotto sei tu. Dovremmo tenerlo bene a mente ogni volta che facciamo un post su Facebook, cerchiamo un servizio o un luogo su Google Maps, ci scambiamo messaggi su WhatsApp. Però non lo facciamo quasi mai. Il gratis ci seduce. Al punto da coltivare un’idea sgangherata di privacy, che non ci fa scaricare l’app Immuni ma quella per il Cashback sì. Ma che soprattutto non ci impedisce di raccontarci quotidianamente sui social. Di mettere in piazza abitudini, gusti e pure i tratti più personali e intimi.

Con poche eccezioni siamo sospettosi ma esibizionisti. Alla fine ignari delle partite che, magari quando indossiamo uno Smartwatch, si giocano sulla nostra pelle. Giusto per riferirsi all’acquisizione di Fitbit, leader nella produzione di materiali e tecnologie indossabili per il fitness da parte di Google. Che ha ottenuto un via libera condizionato dall’Autorità anti trust europea. Essendo concreto il rischio che accumulando dati sulle pratiche fisiche e di benessere che preferiamo, una compagnia privata possa appropriarsi della nostra salute

Nella società dell’algoritmo e dell’avanzante Intelligenza artificiale ( AI) saremo sempre più dati, prima che persone. Nel 2017 è stata stimata una produzione di dati che in soli due anni aveva superato quella dell’intera storia umana. Oggi per avere un’idea di Big Data si pensi che il supercomputer di Eni, HPC 5, messo a disposizione della ricerca anti-covid, può fare 35,5 milioni di miliardi di operazioni matematiche al secondo.

In tale contesto inquieta che istituzioni e politica facciano fatica a regolare la società digitale che si sta velocemente materializzando. Certo con il GDPR dell’Unione Europea, entrato in vigore nel 2018, a tutela dei dati personali, è stato fatto un notevole passo avanti. Ma la grande questione restiamo noi cittadini. Noi utenti, noi consumatori felici e contenti di vivere nel Far Web.