Per approfondire:
Questa storia comincia dalla fine, da un giorno dell’aprile 1945, quando una tradotta di autoblindo sta per passare il confine con la Svizzera, dalle parti del lago di Como. È quello che resta di un esercito in ritirata sotto il peso di una sconfitta non ancora accettata, e di persone che scappano per cercare di là dalle Alpi quella bella morte che fa parte del mito della loro giovinezza. Perché una cosa è essere vinti un’altra essere sconfitti. Accanto al Duce del fascismo, ormai rassegnato e quasi indifferente al destino, c’è una giovane donna di 23 anni, bionda, bella, fiera. In pochi sanno chi sia. Però lui la tiene vicino, la chiama per nome, Elena, anche se le dà del "voi", lei gli si rivolge deferente, "Duce". Sa che è suo padre ma nemmeno per un attimo le è saltato in mente di rivolgersi a lui come fanno tutti i figli del mondo, "papà". È il capo, anche se vinto, ma il Duce non ha figli, non può essere un babbo. Fino alla fine Mussolini scriverà ai figli, quelli legittimi, firmandosi semplicemente Mussolini. Eppure c’è qualcosa di tenero, di strano, di inusuale, forse anche di poco mussoliniano, nel rapporto che nel crepuscolo fosco di Salò nasce tra quest’uomo spento, e questa ragazza che è sua figlia ma che lui non sa se considerare sua figlia, Elena Curti, morta due giorni fa a quasi cento anni nella sua casa di Acquapendente, nata dalla relazione tra l’allora direttore del Popolo d’Italia e una giovane sarta milanese, Angela Curti. Quasi come se a Salò le luci della sera avessero ammorbidito il menefreghismo egoista e baldanzoso di sempre. Mussolini ha avuto molti figli illegittimi, più di quelli che oggi sappiamo, e li ha sempre tenuti nascosti. Non li ha voluti vedere, non ha ...
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