Mercoledì 24 Aprile 2024

Maradona, altro che piedi: era l'immaginazione al potere. Ha stregato cinema e letteratura

Maradona non è stato solo il più grande calciatore di sempre ma un fenomeno culturale di massa. Il pallone come metafora della vita. Da Kusturica a Galeano, il fascino di chi ha disegnato traiettorie da sogno. E per i suoi compagni è stato quasi un leader politico

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Diego Armando Maradona – e di conseguenza la sua vita – è il romanzo "in carne e ossa" che Osvaldo Soriano ha incrociato sulla sua strada, senza mai riuscire a scriverlo, fino in fondo. È il fútbol, come amava chiamarlo lo scrittore argentino, in cui l’immaginazione va (davvero) al potere e in cui "pensare con i piedi" non è sbagliato, ma è assolutamente giusto. Anzi, necessario. Nella primavera del 1979 Soriano scrisse una lettera – una delle tante, di uno spassoso carteggio molto letterario – al suo ’fratello italiano’ Giovanni Arpino: "Anche se è basso di statura, Maradona è il più grande giocatore degli ultimi 30 anni, Sivori paragonato a lui è un energumeno. Se il Torino lo compra, fa un affare. Poi dite che non vi avevo avvertito".

Maradona non è ancora Maradona, ma il potere di fascinazione che emana questo tracagnotto che col pallone tra i piedi fa cose inimmaginabili è fortissimo. Parte da Lanus, nella provincia sud (e povera) di Buenos Aires, palleggiando con un’arancia senza farla mai cadere a terra, come se fosse un pallone, e arriva a conquistare il mondo: un viaggio di sola andata, pieno di buche. Un perdente vestito di sogno, per dirla alla Soriano, che diventa vincente e che torna (ancora) perdente. Un altro scrittore latinoamericano, Eduardo Galeano, uruguagio, che di "splendori e miserie del gioco del calcio" s’intendeva, sentenziò su Maradona: "Giocò, vinse, pisciò, fu sconfitto".

La vita del Pibe de Oro sta tutta qui, in queste quattro azioni, che lo rendono divino ma anche così profondamente umano, così dedito all’errore, anche senza bisogno di correzione. Così facile al perdono, pensando a una sua punizione, a un suo colpo che definire di "genio" sarebbe riduttivo. Un fenomeno culturale (di massa), senza che nessuno possa storcere il naso, pensando che un calciatore sia stato sopravvalutato per quello che poi è, uno che prende a calci (bene) un pallone. Ma anche uno che con un pallone disegna traiettorie non solo da sogno, ma di sogni. Come quando negli spogliatoi dell’Argentina, ai mondiali messicani, arringa i compagni di squadra prima della partita contro l’Inghilterra, facendo capire da lider che quella non è solo una partita di calcio, con la guerra delle Falkland che è ancora viva nel ricordo. A un giornalista italiano, qualche anno più tardi dirà: "Occupati di politica estera, perché il calcio è una cosa troppo seria". Il pallone non è metafora della vita, è la vita stessa. E lui, nel film che Emir Kusturica gli dedica, dice: "Io sono la mia colpa". E in quel film, al netto delle comparsate con Fidel e gli altri lider bolivariani, c’è forse la scena più bella e commovente.

Diego con la moglie Claudia – che ha continuato ad accompagnarlo anche quando non erano più marito e moglie – al centro di un locale: lui strafatto, sovrappeso, con la testa che non si sa dove è e lì iniziano a cantare la sua canzone. "Maradò, Maradò". E la sala si affolla e lui rivede, come un interminabile flashback tutta la sua vita: l’ascesa, la gloria, gli eccessi, la caduta rovinosa, la vita scissa da quella su un campo da calcio che non potrà essere più come quella di prima. E si commuove. Perché come canta Manu Chao, a proposito di Maradona, la vita è una tombola. E Diego, per quanto possa sembrare azzardato, ce l’ha insegnato.