Mercoledì 24 Aprile 2024

Italia-Germania, quella volta sotto il palco di Pertini

Il nostro inviato al Mundial '82 rivive la storica finale con la Germania

Bruno Conti e Sandro Pertini (LaPresse)

Bruno Conti e Sandro Pertini (LaPresse)

Roma, 1 luglio 2016 - Sono le 4 del mattino nella piazzetta di Alicante. La Lancia Delta che annaspava sulla Sierra ha preso nuova vita e aspetta placida in un cantone. Deve mangiarsi seicento chilometri per guadagnarsi il paradiso della finalissima. Stasera al Bernabeu di Madrid si gioca Italia-Germania e il nostro equipaggio formato da tre giornalisti, spediti come globetrotter in ogni angolo del Mundial, non può mancare.

La sveglia, nel cuore di una caldissima 'madrugada', è l’ultimo sacrificio nel nome del pallone. Al centro della piazza c’è l’oasi inattesa di un chiosco. L’offerta è minima ma allettante: 'granizado' con succo di limoni giganteschi. Un bicchierone a testa per aprire una giornata di gloria e si parte verso Madrid. La Lancia adesso romba sicura mentre risale la Spagna, già percorsa in lungo e in largo. La superstrada diventa una piccola 'caretera' mentre si inerpica sulle montagne piallate dal tempo. I tori della Osborne sbucano all’orizzonte come sagome inquietanti, accarezzate dal sole che sorge. E’ facile sentirsi dentro un film in una cornice come questa. Anche perché la radio tambureggia ogni mezz’ora sul "partido del siglo" del Bernabeu, celebra il cammino mondiale dell’Italia e "Pablito Rossi, una maravilla de jugador".

Della partita non si parla, per scaramanzia. Io, matricola del Mundial, mi sento davvero un nodo in gola se penso a quel che mi aspetta di lì a poche ore. La lunga traversata si consuma in un tempo indefinibile, che è insieme eterno e brevissimo. E’ quasi mezzogiorno quando sbarchiamo sull’avenida del generalissimo Franco. Gli spagnoli la chiamano ancora così, anche se è stata ribattezzata. E’ un modo per prendere le distanze dalla storia o forse per esorcizzare il passato. Ci tuffiamo in un fiume di umanità tricolore, un’interminabile catena di tifo, passione e colore, dove la sana voglia di calcio si mischia all’esibizionismo smaccato e al cattivo gusto.

"Los Italianos" sono arrivati in massa, hanno scelto ogni tipo di travestimento (dal finto Pertini al Papa) per partecipare alla grande festa, per dire al mondo "io c’ero". L’auto ormai è parcheggiata nell’immenso piazzale del Bernabeu. Ora bisogna fendere la folla per arrivare alla passerella sospesa sopra l’avenida e guadagnare l’ingresso dello stadio. Mancano otto ore alla partita ma i colleghi ci sono già tutti. La febbre è altissima quando chiamo il giornale per sapere il mio menù: pezzi di copertura celebrativi, da usare in caso di vittoria, e poi un’intervista a Zoff, la sola voce della silenziosa Italia di Bearzot. Mancano due ore e ci scaraventiamo tutti dentro il cuore del Bernabeu. Gli avversari del Real chiamano questo stadio l’inferno per le sue volte imperiose. Quando il tifo dei merengues fa sul serio, sembra davvero di stare di una bolgia. Ma questa sera anche il Bernabeu è trasfigurato dal mare azzurro che lo invade in ogni angolo, ne ruba il cuore e l’anima.Stordito dallo spettacolo, cerco il mio posto stampa e trovo un regalo inatteso. La sorte mi ha collocato in zona centralissima, due file avanti il palco reale. Mezz’ora prima della partita a pochi metri da me si siedono re Juan Carlos e il presidente Pertini con la sua pipa, l’eterno sorriso e gli occhi spiritati. All’inno nazionale il Bernabeu diventa una piazza italiana, lo stadio intero canta a squarciagola e la mia pelle d’oca raggiunge livelli inquietanti. Non so se questo è amor patrio, ma un’emozione così la raccomando a chiunque. Comincia la partita e giornalisti di ogni razza e colore esprimono il loro vaticinio. Un brasiliano che mi siede accanto sussurra in spagnolo «Gana Italia, lo quiere Dios». Forte di questa assistenza ultraterrena, non mi sgomento al rigore fallito da Cabrini e aspetto che il destino disegni la sua strada.

Quando Pablito fa esplodere lo stadio, salto in piedi come un tifoso tarantolato, abbraccio il colossale collega brasiliano e guardo verso il palco reale. Lì Pertini fa quasi di peggio. Dimentica ogni etichetta: si alza, esulta, stringe i pugni, urla la sua gioia. Ci manca solo che faccia il gesto dell’ombrello al cancelliere Schmidt, sempre più cupo e impietrito.Ma altre esplosioni arriveranno. Quando Tardelli corre verso la folla con la «o» del gol disegnata sulla bocca per un tempo eterno, consegnandosi alla storia del calcio. Quando Altobelli, col suo stile sbilenco,indovina il terzo gol. "Campioni del mondo, campioni del mondo, campioni del mondo" urla Martellini rinunciando finalmente al suo stile inglese. E a pochi metri da me il capotifoso Sandro Pertini abbraccia e bacia tutti, saltella per il palco, sprizza la felicità genuina di un uomo che è scampato agli orrori della storia e oggi può sorridere dentro questa bella favola.