Giovedì 25 Aprile 2024

D'Alema e Bersani al veleno. Ma la minoranza Pd si sfalda

Pierluigi Bersani (Ansa)

Pierluigi Bersani (Ansa)

Ettore Maria Colombo ROMA FINISCE con 130 favorevoli, 11 astenuti e, soprattutto, 20 contrari. L’odore del sangue, alla fine, chiama, inevitabilmente, il sangue. Dopo quattro ore di discussione, il Pd si spacca e non su un particolare da niente, ma sull’art 18, totem e tabù della sinistra. Si spacca, soprattutto, la minoranza, divisa tra astenuti (Speranza ed Epifani) e contrari (tra gli altri, Civati, D’Alema, Bersani, Fassina, Zoggia, Damiano e Cuperlo). E sullo sfondo, torna ad agitarsi il tema scissione. Evocato, finora, solo da Civati, da oggi sarà a tema anche nei gruppi parlamentari. Qui già si prevedono defezioni, almeno dentro la minoranza, sul Jobs Act. A partire dal gruppo Pd al Senato, dove già si contano in uno spettro che va da cinque a trenta, i dissidenti pronti al no. UNA COSA è certa. Ieri è stato il giorno del ‘fuori i secondi’. Fuori i Civati, Fassina, D’Attore tuonanti da giorni, dentro i pesi massimi. È un frontale quello che Massimo D’Alema e Pier Luigi Bersani scelgono di fare contro Renzi, il governo, la sua idea di partito. Dopo una Direzione iniziata tardissimo, con ben un’ora di ritardo e che si chiude non prima delle 22, è chiaro che i destini della ‘vecchia guardia’ (Bersani e D’Alema, appunto) potrebbero, in futuro, pure separarsi, e per sempre, da quelli del Pd ‘renziano’. E ahivoglia la minoranza, quella più dialogante, guidata da Gianni Cuperlo e dal capogruppo alla Camera, Roberto Speranza, a cercare, per ore, la mediazione con il vicesegretario Pd Guerini. La mediazione, iniziata ben prima della Direzione, va avanti ore, ma alla fine salta. Zoggia e D’Attorre chiedono un voto per parti separate, ritenendo del tutto indigeribile la parte sull’articolo 18, mentre Speranza annuncia, per parte sua, un voto di astensione. Alla fine è rottura, con tanto di documenti contrapposti agli atti. Il premier, complice l’incontro con Napolitano, aveva aperto, e su diversi punti: la riapertura del dialogo con i sindacati, soldi veri per gli ammortizzatori sociali e, soprattutto, sì al reintegro per i licenziamenti disciplinari e non solo per quelli discriminatori. Ma non c’è niente da fare. Le parole (pesanti, affilate, durissime) prima di D’Alema, poi di Bersani chiudono ogni spazio possibile. Nella versione di D’Alema: «Renzi ha fatto affermazioni false. Servirebbero meno spot e meno slogan. Eliminare del tutto l’articolo 18 equivale a un’uscita dell’Italia dal consesso civile europeo». Nella versione di Bersani: «Sull’orlo del baratro ci stiamo andando perché il Pd sta scivolando verso il metodo Boffo, non l’accetto. Neofiti e neoconvertiti mi vogliono spiegare come si sta nel Pd!». Roberto Giachetti, furibondo, rinfaccia a Bersani di tutto e di più e l’ex segretario gli risponde, dalla platea, per le rime. Il clima s’avvelena e alla fine, si va alla conta. A nulla vale l’appello che Cuperlo lancia, dicendo a Renzi che «qui non ci sono volatili notturni (gufi), ma tu non puoi essere il dominus del Pd» e neppure le aperture che vedono i Giovani Turchi votare con Renzi. Renzi, in replica, avverte: «Nei gruppi parlamentari si deve votare di conseguenza a questo voto», ma sa che non sarà per tutti così.