Venerdì 26 Aprile 2024

Dom Franzoni, l'abate rosso dimenticato anche da Bergoglio

La parabola dell'ex benedettino che fino alla sua morte ha sperato invano di potersi riconciliare con la Chiesa istituzione. Icona dei progressisti, il teologo tendeva la mano alla destra cattolica

Dom Giovanni Franzoni in una foto dei primi anni Sessanta (Ansa)

Dom Giovanni Franzoni in una foto dei primi anni Sessanta (Ansa)

Roma, 17 luglio 2017 - Nemmeno la Chiesa di Francesco l’ha riabilitato, neanche il Papa della misericordia. Dom Giovanni Franzoni, scomparso giovedì scorso a 89 anni, è morto da ex. Ex monaco benedettino, ex prete, ex abate rosso della basilica di San Paolo fuori le mura, salvo rarissime eccezioni, trattato fino all’ultimo come un fantasma ingombrante da una Chiesa istituzione che negli anni ’70 lo sospese a divinis prima di ridurlo allo stato laicale. Nel processo canonico ai suoi danni i detrattori ebbero vita facile a far passare per un tesseramento la sua dichiarazione di voto al Pci. Una trappola, l’ha sempre definita dom Franzoni, orchestrata da quei settori ecclesiali che non avevano alcuna remora a irrompere nella basilica di San Paolo per disturbare le sue omelie contro la guerra nel Vietnam, le speculazioni edilizie della Gerarchia cattolica, a favore di un dialogo con i marxisti nell’ottica di un socialismo dal volto umano e di una cattolicità schierata concretamente al fianco degli ultimi. Ce ne era abbastanza per metterlo ‘fuori le mura’, per spogliarlo delle sicurezze ecclesiastiche e dimenticarlo. L’apice di questa damnatio memoriae si raggiunse nel 2012. Il nome di dom Franzoni, che aveva preso parte alla terza e alla quarta sessione del Vaticano II, venne omesso dall'elenco dei padri conciliari ancora in vita, in occasione delle celebrazioni ufficiali per i 50 anni dall’apertura del Concilio. Un'assemblea che lo vide, vescovo più giovane fra i partecipanti, nel gruppo di estensori della Gaudium et spes (1965), la costituzione pastorale sulla Chiesa e il mondo. 

Poteva bastare una conversione, se non per azzerare, quantomeno per ridurre le distanze. La Chiesa ha un debole per i pentiti. Se non li fa santi, poco ci manca. Ma dom Franzoni non ha mai incarnato il modello del figliol prodigo. Di contro ha sempre difeso il suo appoggio alle leggi sul divorzio e sull’aborto fino a schierarsi in tempi più recenti a favore dell’eutanasia passiva. Teologo mai banale, argomentava le sue tesi, ancorandole alla Bibbia. Poi uno poteva condividere o meno le sue istanze: la Chiesa plurale, che andava predicando, escludeva le scomuniche, persino per i lefebvriani di cui comprendeva le ragioni. Forse perché quando entrò al Concilio si muoveva ancora su posizioni piuttosto prudenti. La sua era una proposta radicale, senza compromessi, se vogliamo, difficile da capire per chi, non avendo vissuto la stagione del cosiddetto ‘dissenso cattolico’ in cui lui giocò un ruolo di prim'ordine, oggi si interroga sulla sua decisione di rinunciare, una volta sospeso a divinis, all’abito da monaco e tenere a battesimo la Comunità di base di San Paolo. Il suo messaggio, anche se mitigato, non avrebbe trovato un’eco maggiore, continuando dall’interno del sistema ecclesiastico la battaglia per la purificazione della Chiesa? Non è stato forse questo il compromesso accettato da don Primo Mazzolari, don Lorenzo Milani, da un vescovo come monsignor Tonino Bello?

Sono trascorsi oltre quattro anni dall’inizio del pontificato di Bergoglio, un tempo più che sufficiente per escludere che l’ex arcivescovo di Buenos Aires fosse all’oscuro della parabola ecclesiale e umana di dom Franzoni. La conosceva per come le era stata raccontata da alcuni suoi collaboratori che nell’abate rosso hanno sempre visto un elemento di scandalo, una figura divisiva. persino alla fine quando era cieco e malato. Si è detto e si è scritto che la sua cdb è un’altra Chiesa rispetto a quella cattolica, che lui negava l’autorità del Papa e, più in generale, del clero. Chi lo ha conosciuto e ascoltato sa che dom Franzoni predicava una Chiesa altra, non diversa da quella romana; era allergico a qualsiasi forma di santificazione del papato, a partire dalla canonizzazione a tempi di record di Giovanni Paolo II; infine, fedele al dettato originale del Nuovo testamento, parlava di presbiteri e non di sacerdoti, rifiutando la clericalizzazione del popolo di Dio al punto che, pur essendo un’icona della sinistra cattolica, tirava il freno sul sacerdozio femminile.

Una manciata di anni fa scrisse una lettera privata a Bergoglio. In seguito gli donò una copia delle sue memorie, Autobiografia di un cattolico marginale. A fargli da tramite un religioso di alto rango con cui negli ultimi anni era entrato in amicizia. Dal Papa nessuna risposta, nessuna apertura a un incontro con quel padre conciliare caduto in disgrazia. Sembra che Francesco stesse valutando il da farsi, tra resistenze e sotterranee richieste di riabilitazione. Eppure l’occasione per un gesto di riconciliazione era stata lì, a portata di mano, con la stesura della Laudato sii, l’enciclica del Papa sull’ambiente, datata 2015. Per certi versi la lettera pastorale dell’allora abate di San Paolo fuori le mura, La terra di Dio (1973), che scosse le coscienze anche di credenti lontani dalla sua sensibilità, può essere intesa a pieno titolo come anticipatrice del documento bergogliano. Vuoi per l’appello alla cura del creato, vuoi per il monito a non sfruttare il pianeta, a non farne uno strumento di arricchimento personale, di sopraffazione del fratello. Sarebbe bastata una citazione, una nota. E, invece, nulla. Come se quel testo non c’entrasse, o peggio, non fosse mai stato dato alle stampe.

Anche se pubblicamente preferiva non soffermarsi sull’argomento, in cuor suo dom Franzoni sperava in un segno di riappacificazione della Gerarchia cattolica. Coniugato dal 1991, la moglie è una giornalista giapponese atea, non desiderava la riammissione nel clero, oggettivamente difficilissima, ma non impossibile, considerata la presenza di preti uxorati anche in Occidente, vedesi i pastori protestanti rientrati in comunione con Roma dopo il via libera di Benedetto XVI nel 2009. L'ex abate voleva giustizia, quello sì, senza per questo indossare i panni della vittima. Anzi, quasi fosse ‘affetto’ dalla Sindrome di Stoccolma, si ostinava a considerare Paolo VI, che inizialmente l’ebbe in gloria e che poi avallò la sua riduzione allo stato laicale, il Papa più progressista del ’900. Era stato Montini, spiegava, a spogliarsi per primo nel 1964 del triregno, simbolo del potere pontificio sugli imperatori e sulle realtà celesti.

Più cauto il suo giudizio su Bergoglio. Ne apprezzava la simpatia, il richiamo a una Chiesa povera dei poveri; aveva salutato con favore l’apertura ai sacramenti per i divorziati risposati, mettendosi a disposizione per un dialogo con chi, nella galassia conservatrice, non riusciva ad accettare la svolta. Tuttavia, l’autore de Il Diavolo, mio fratello (1986), nel quale si nega l’esistenza di Satana così come descritto nell’immaginario popolare, stigmatizzava i frequenti rimandi a Lucifero di Francesco; invocava un Sinodo dei vescovi deliberativo; spingeva per una riforma della dottrina sulla famiglia e non solo della pastorale; coglieva troppi tentennamenti nella ridefinizione della Curia romana e avrebbe fatto a meno dello Ior.

Per il suo funerale la Conferenza episcopale italiana ha preferito non inviare alcun messaggio. Sabato, alla cerimonia di fronte a quella che è stata la sua basilica, hanno preso la parola tra gli altri l’attuale abate di San Paolo fuori le mura, dom Roberto Dotta - il suo è stato un ricordo sentito, non di circostanza –, e monsignor Enrico Feroci, direttore della Caritas di Roma. Assente l’arciprete di San Paolo, il cardinale James Harvey, che nel novembre scorso aveva incontrato dom Franzoni durante la consegna solenne, in comodato d’uso gratuito, dei locali del seminterrato di via Ostiense 152/B dall’abbazia alla Cdb di San Paolo. Un piccolo gesto di vicinanza che l’ex benedettino aveva apprezzato molto, ma che non è riuscito (come poteva?) a scaldare oltre quarant’anni di gelo.

C’è voluto mezzo secolo, perché un Papa si recasse a pregare sulle tombe di don Mazzolari e don Milani. Anche a volerlo, questo non sarà possibile per dom Franzoni, la cui salma, per sua espressa volontà, è stata cremata e consegnata alla moglie. Paradossalmente a Francesco o ai suoi successori basterà una parola per riconciliare la Chiesa con un pastore in anticipo sui tempi. Con chi, come ha lasciato scritto lui stesso nella autobiografia, decise di rinunciare al ministero di abate per obbedire alla sua comunità dei fedeli, per non lasciare sola quella porzione di popolo di Dio a lui affidata, che invocava la sua guida e rischiava la dispersione al di fuori del cristianesimo. Quell'addio significò anche non deludere l’allora segretario della Congregazione per i religiosi, monsignor Paul Mayer, che, in disaccordo totale con la linea del benedettino, gli aveva imposto di sottoporre ogni atto pubblico ai superiori. Come dire, l’aveva già messo da parte. Non restava altro che 'spogliarsi', non rimaneva che obbedire. Strano, ma anche i profeti più inquieti sanno farlo.