Mercoledì 24 Aprile 2024

Malala: il talebano e la bambina Una vittoria disarmante

Malala

Malala

“L'istruzione è un nostro diritto e ho deciso di non stare zitta. Sono il primo Nobel che ancora litiga con il fratellino”

NATA IL 12 luglio 1997 a Mingora, Pakistan

«Avevo due possibilità: stare zitta e aspettare di essere uccisa o parlare ed essere uccisa. Ho deciso di parlare». Malala Yousafzai, pakistana di Mingora, aveva appena 17 anni quando fu premiata con il Nobel per la pace. Era il 2014, mai nessuno prima di lei così giovane. Per nulla intimorita, ormai simbolo universale, parlò con voce ferma e appassionata, dimostrando al mondo di avere il coraggio della bontà. Parole dirette e sorrisi, il dito alzato, nei passaggi che più le stavano a cuore, come fanno i primi della classe. Per quello i talebani le avevano sparato in faccia, due anni prima, mentre tornava in autobus dalla scuola che amava. Lei, la più brava, voleva l’istruzione per le ragazze, una sfida agli editti degli integralisti islamici, un atto d’amore per la madre analfabeta. Era diventata un bersaglio da quando, a 11 anni, aveva cominciato a scrivere un diario per la BBC, raccontava la vita quotidiana nei giorni della follia. Per i signori della morte era un’infedele, il simbolo dell’oscenità. «Anche se verranno a uccidermi dirò loro che sbagliano. L’istruzione è un nostro diritto fondamentale», aveva scritto. Il 9 ottobre 2012 i talebani le spararono davvero. Si salvò per miracolo. Suo padre piangeva quando i medici gli dissero: sopravviverà ma forse non sarà più la stessa. E invece, dopo un viaggio avventuroso, nell’ospedale di Birmingham, in Inghilterra, dopo tanti interventi e altrettanto dolore, le restituirono il sorriso e le regalarono una vita nuova. Non era più la piccola pakistana innamorata della scuola e della sua patria: era diventata Malala, l’attivista per i diritti. Aveva sorpreso tutti, anche il papà. «Nella parte del mondo dove sono nato, le persone diventano famose per i loro figli maschi», disse una volta nel ritirare un premio, in Francia.

E non deve sorprendere che Malala, giovane donna musulmana - oggi ha 21 anni, studia all’università di Oxford e continua a pensare che un giorno tornerà in patria - abbia spiegato la sua decisione più importante usando le parole di un’altra icona, molto distante da lei. La giornalista italiana più letta al mondo che ne ‘La rabbia e l’orgoglio’, dopo l’attentato alle Torri gemelle, scriveva: «Vi sono momenti, nella vita, in cui tacere diventa una colpa e parlare diventa un obbligo. Un dovere civile, una sfida morale, un imperativo categorico al quale non ci si può sottrarre». Quella scrittrice, Oriana Fallaci, ci aveva messo in guardia dagli estremisti dell’Islam, «non lo sapevate che nell’Afghanistan dei talebani le donne non possono ridere, che gli è proibito persino ridere?», scriveva anche. E pare un cammeo dedicato alla bambina pakistana che amava le barzellette e raccontava ogni esperienza con un grande senso dell’ironia. «Sono abbastanza sicura di essere la prima vincitrice del Nobel che ancora litiga con suo fratello minore», mise tutti di buonumore Malala, alla consegna del premio. Anche: «Potrò sembrarvi solo una ragazza, per di più alta neanche un metro e sessanta con i tacchi». E un tempo pregava Allah di regalarle qualche centimetro in più, poi un giorno si guardò allo specchio e capì che le aveva regalato un’altezza diversa. «Non sono una voce solitaria, sono tante voci. Sono quei milioni di giovani che non possono andare a scuola», si raccontava ai leader del mondo, i capelli corvini incorniciati da un velo color corallo, perché la bellezza sta anche nei colori, quelli che non a caso infastidivano i talebani. Il velo ma non altro, «non è specificato da nessuna parte che le donne debbano portare il burqa», disse alla madre che ne voleva acquistare uno nel primo viaggio alla Mecca.

Ecco: ma cosa ci dice oggi Malala? Lei che l’anno scorso è tornata in Pakistan per la prima volta dopo l’attentato e si è commossa, «questo è il posto più bello della terra». Cosa racconta questa giovane donna musulmana a noi che dobbiamo fare i conti con le Hina e le Sana, insomma con le ragazze pakistane cresciute in Italia e uccise perché hanno tradito la legge dei padri? O con Asia Bibi, cristiana, condannata a morte per blasfemia e infine assolta dopo 9 anni di carcere. Ma condannata per sempre a nascondersi, libera di lasciare il paese ma anche di finire ammazzata. Cosa ci dice Malala quando leggiamo di donne cristiane arse vive in Pakistan, centinaia di casi all’anno, martirizzate perché rifiutano di sposare un musulmano e di convertirsi all’Islam? «Metto la mia vita in pericolo e sono qui perché credo che questo paese sia in pericolo», disse la premier pakistana Benazir Bhutto poco prima di essere uccisa. Malala indossava uno dei suoi veli bianchi quando parlando all’Onu incantò i grandi della terra con il candore della sua preghiera: «Un bambino, un insegnante, un libro e una penna possono cambiare il mondo». Ecco cosa ci dice la ragazza nata nella valle dello Swat: sta dalla stessa parte di Hina, Sana, Asia e di tante altre che non hanno lasciato neppure un nome da piangere. È la parte della libertà.