Venerdì 26 Aprile 2024

Quante storie racconta il Dna della vite

Attilio Scienza

Attilio Scienza

Attilio Scienza

BOLOGNA, UN VIAGGIO nel Dna della vite. O nella ‘Stirpe del vino’, per citare il libro di Attilio Scienza (foto)– docente universitario e autore di progetti di ricerca nel campo della genetica della vite – che ha curato un volume con Serena Imazio (Sperling&Kupfer) in cui svela come quello del vino sia una storia fatta di migrazioni, scambi e adattamenti climatici. In ogni calice c’è un racconto, fatto di luoghi e uomini. Tutti temi che Scienza ha affrontato in una lectio magistralis organizzata a Bologna dalla Fondazione Fico. Scienza, cosa racconta questo approccio antropologico alla vite? «Come si è arrivati alle varietà di oggi, che hanno avuto un lungo cammino, iniziato con i processi di addomesticazione della vite selvatica, a partire dal Neolitico. Ma nel frattempo altri vitigni sono arrivati da Oriente: i migranti hanno portato tralci di vite dando vita a incroci spontanei, poi selezionati dall’uomo». E’ una storia di viaggi e scambi, quella del vino. «Intanto vanno distinti i termini ‘confine’ e ‘frontiera’: quest’ultima è un luogo di contrapposizione, tensione. Abbiamo ancora dei vitigni rimasti separati, nati da frontiere, anche culturali, nascoste». Qualche esempio in Italia? «Ischia. La zona tettonica era abitata dai Greci e quella vulcanica da Romani ed Etruschi. Le due aree erano e sono ancora divise da una strada e la frontiera si vede nei diversi sistemi di allevamento». E nel caso dei confini? «Il confine, invece, è luogo di interazione. Bisogna risalire all’imperatore Probo – che presidiava il Reno – che portò in Occidente varietà in zone come la Germania o il Nord Italia. Dagli incroci con le tipologie locali ne derivarono altre molto diffuse oggi, come Chardonnay, Riesling, Sauvignon e Traminer. Ci sono poi casi emblematici di varietà formatesi al Sud e che troviamo più a Nord». Quali? «Ad esempio il Sangiovese. E’ figlio di una varietà campana e calabrese, poi arrivata al Centro-Nord, dove ha trovato l’ambiente ideale. Allora, la parola autoctono si riferisce a qualcosa nato in un luogo o fa riferimento piuttosto al luogo in cui quel vitigno si esprime compiutamente?». Anche i cambiamenti climatici hanno avuto un ruolo? «Sì, la piccola glaciazione ha portato una crisi in Europa. Venezia espanse la viticultura a Creta e, quando questa cadde in mano ai Turchi, fece produrre un vino simile a quello greco sulle coste dell’Adriatico: così molti vini diventarono Malvasie. Oggi in Italia ne abbiamo una trentina, non imparentate fra loro». Quali risultati si ottengono studiando il Dna della vite? «Ad esempio siamo riusciti a risalire al vitigno coltivato da Leonardo da Vinci a Milano: era una Malvasia che derivava dalla Pianura Padana. Ormail il Dna è sdoganato, è diventato uno strumento di uso comune. Dal 2007 abbiamo tutta la mappa dei geni della vite, il lavoro ora è capire come si esprimono questi geni». Oggi si parla molto di cisgensi, anche per rafforzare la vite contro i cambiamenti climatici. «O si opera con incroci tradizionali o con la tecnica del Dna, che permette di anticipare i tempi. Gli Stati Uniti sono già molto avanti nel ‘genome editing’ e credo che le cose cambieranno anche da noi».