Mercoledì 24 Aprile 2024

Nuovo governo, meno tasse sul lavoro. Ma solo per pochi

I piani del governo sul cuneo fiscale penalizzano il ceto medio

Il primo Cdm del Conte bis (LaPresse)

Il primo Cdm del Conte bis (LaPresse)

Roma, 07 settembre 2019 - Su una cosa Pd e 5 Stelle si sono dichiarati d’accordo: la manovra per il 2020 deve avere come chiave di volta il taglio del cosiddetto cuneo fiscale e contributivo che dovrà andare a favore dei lavoratori e non delle imprese. E su questo, per di più, sono dello stesso avviso anche i sindacati e i vertici di Confindustria e delle altre associazioni imprenditoriali. Il problema, però, è che l’operazione, anche nella versione più ampia degli economisti dem, si tradurrebbe in un bonus da 1.500 euro l’anno netti a favore, al massimo, dei redditi fino a 35 mila euro lordi. Per la fascia superiore, fino a 55 mila, il vantaggio scenderebbe progressivamente fino a zero. Una vera inversione a U rispetto alla soluzione Flat tax di matrice leghista che avrebbe prodotto sconti crescenti al crescere del reddito, anche di 5-6 mila euro per guadagni sopra i 50 mila euro.

Ma torniamo alla partita in corso in vista della legge di Bilancio. Le risorse disponibili per il taglio del cuneo sono tutte da quantificare, fanno sapere coloro che tra i grillini e nel Pd stanno lavorando al dossier. Il piano dei democratici contempla un intervento triennale da 15 miliardi di euro, 5 miliardi l’anno. I grillini, con Luigi Di Maio, hanno stimato in 6 miliardi le risorse da destinare alla misura nel 2020.

L’intesa per ridurre il peso di tasse e contributi sul costo del lavoro, dunque, c’è. E, d’altra parte, se nei Paesi Ocse la media degli oneri fiscali e previdenziali in busta paga è del 36,1%, nel nostro Paese raggiunge, per un lavoratore standard single e senza figli a carico, il 47,9%. La differenza è ancora più evidente se pensiamo che per un netto di 20.700 l’azienda paga 41.700 euro complessivi, con un cuneo pari al 50 per cento e oltre. A differenza di altre precedenti occasioni, questa volta, su impulso del Pd, si è stabilito che il taglio deve favorire l’incremento degli stipendi netti e non la diminuzione degli oneri per le imprese. La detrazione assorbirebbe, potenziandolo, il bonus 80 euro, perché riguarderebbe anche i contribuenti cosiddetti incapienti (sotto forma di credito da incassare in sede di dichiarazione dei redditi o di conguaglio annuale da parte del sostituto d’imposta) e il ceto medio (dai 26mila ai 55mila euro).

Ora, scontando i circa 10 miliardi del bonus Renzi (corrisposto fino a 26.600 euro), si aggiungerebbero di fatto altri 5 miliardi: una quota significativa andrebbe agli incapienti, un’altra ai redditi da 27 a 35 mila euro, i quali, però, potrebbero contare su circa 125 euro mensili in più rispetto a oggi. Mentre sopra questa soglia si arriverebbe a un vantaggio via via decrescente fino a zero. Il risultato, per il ceto medio, si annullerebbe completamente se dovesse prevalere l’idea grillina di utilizzare le risorse disponibili per compensare le imprese dall’aumento dei costi derivanti dall’introduzione del salario minimo di 9 euro l’ora: in questo caso, infatti, il beneficio fiscale andrebbe completamente ai lavoratori con guadagni bassi o molto bassi. E lo stesso effetto si avrebbe se si puntasse su incentivi per abbattere il costo del lavoro dei giovani neoassunti.