Giovedì 25 Aprile 2024

Jobs Act e privacy, tensione tra Poletti e Renzi: "Decreti fatti". Poi il dietrofront

Al Meeting il ministro annuncia l’approdo nel Cdm, quindi il rinvio

 Giuliano Poletti e Matteo Renzi (Lapresse)

Giuliano Poletti e Matteo Renzi (Lapresse)

Roma, 27 agosto 205 - IL JOBS ACT inciampa all’ultimo miglio. Il Consiglio dei ministri di oggi avrebbe dovuto definitivamente chiudere la partita sulla riforma del lavoro.

«È previsto che portiamo al Consiglio dei ministri gli ultimi quattro decreti, a quel punto la legge delega sarà completamente attuata», annunciava nel primo pomeriggio il ministro del Lavoro Giuliano Poletti durante il Meeting di Comunione e liberazione. Si è dovuto correggere poco dopo: «È stato fatto un pre-consiglio e decisa una lista di priorità. I nostri decreti scadono a metà settembre, quindi possono slittare e andranno la prossima settimana. Ho parlato con il premier. Non c’è nessun problema di natura tecnica né politica ma solo un problema di sovraffollamento». Tesi confermata anche dagli uomini più vicini a Renzi. Ciò non toglie che qualche problema resti e che ci sia ancora qualche nodo da sciogliere. Se ne riparlerà il 4 settembre, visto che, come spiegano i collaboratori di Poletti, ieri il pre-consiglio non ha esaminato i testi dei quattro decreti.

Il fatto è che, sussurrano in molti, tra Palazzo Chigi e ministero del Lavoro «c’è una certa dialettica», che riflette i pareri sulla delega arrivati da Senato e Camera. A Palazzo Madama i pareri sono stati votati da un Pd renziano e quindi prevedono di mantenere inalterato il testo del governo, a Montecitorio prevale invece la componente dem di minoranza e quindi si chiedono delle correzioni.

Nel mezzo c’è Poletti, che sembra propendere per qualche aggiustamento. Renzi invece non vuole cambiare nulla.

IL DECRETO attuativo che più divide riguarda la possibilità da parte dei datori di lavoro di utilizzare strumenti di controllo a distanza dei dipendenti. Si tratta di modificare l’articolo 4 dello Statuto dei lavoratori che per 45 anni ha vietato tassativamente alle imprese di usare impianti audiovisivi o qualsiasi altro tipo di apparecchiatura per controllare i dipendenti durante l’orario di lavoro.

Per quanto riguarda i cosiddetti «controlli difensivi», su impianti e apparecchiature che sono invece richiesti da esigenze organizzative o produttive o dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali può derivare anche la possibilità di un controllo a distanza, lo Statuto disponeva che per procedere alla loro installazione fosse prima necessario un accordo con i sindacati o il via libera del ministero del Lavoro. Il governo l’11 giugno scorso ha di fatto riscritto l’articolo 4: «Accordo sindacale o autorizzazione ministeriale non sono necessari per l’assegnazione ai lavoratori degli strumenti utilizzati per rendere la prestazione lavorativa».

A reclamare il ripristino della situazione attuale è invece la minoranza Dem. Ieri Cesare Damiano, presidente della commissione Lavoro della Camera (che pur non essendo renziano è dialogante), ha chiesto al governo di «rispettare il compromesso raggiunto», cassando dal testo la possibilità di utilizzare dei dati raccolti anche ai fini delle normative sul rapporto di lavoro. «Non vogliamo quest’ultimo riferimento», spiega Damiano, che sottolinea: «Con il governo abbiamo concordato questa soluzione che è contenuta nelle osservazioni della commissione Lavoro della Camera».

SUL FRONTE opposto Maurizio Sacconi (Ncd), presidente della commissione lavoro del Senato: «Il testo sulle tecnologie non deve peggiorare perché sarebbe ridicolo mantenere diffidenze e burocrazia sugli audiovisivi mentre internet cambia radicalmente tempi e luoghi di lavoro. Così come vanno eliminate tutte le ipotesi di ulteriore complicazione delle regole in materia di salute e sicurezza».

In attesa di capire se il compromesso di cui parla Damiano regge, ci sono le rassicurazioni di Poletti: «Vogliamo essere assolutamente rispettosi delle regole sulla privacy. Occorre avere regole chiare perché su questa materia sono state spesso dettate delle sentenze, mentre crediamo sia più giusto che a definirle sia una legge».