Mercoledì 24 Aprile 2024

Mario Draghi, il premier che non ama l’Aula e quando la sfida fa un autogol

Le stesse Camere che ne bloccarono la corsa al Colle, ieri hanno azzoppato la vita del suo governo

Roma, 20 luglio 2022 - "Siete pronti a confermare quello sforzo che avete compiuto nei primi mesi, e che poi si è affievolito? Siamo qui, in quest’aula, oggi, a questo punto della discussione, perché e solo perché gli italiani lo hanno chiesto. La risposta a queste domande non la dovete dare a me, ma la dovete dare a tutti gli italiani". L’appello al popolo ancora mancava al catalogo di Mario Draghi ed è infine giunto ieri al Senato, dove il presidente del Consiglio ha concesso un appuntito discorso contro Cinque stelle e centrodestra (italo-forzuti e leghisti). A differenza di un populista, tuttavia, il presidente del Consiglio si è rivolto prima ai partiti, cosa che appunto un populista non farebbe mai: "Serve un nuovo patto di fiducia, sincero e concreto, come quello che ci ha permesso finora di cambiare in meglio il Paese. I partiti e voi parlamentari - siete pronti a ricostruire questo patto?" (Risposta breve: no).

Mario Draghi tra i ministri del suo governo (ImagoEconomica)
Mario Draghi tra i ministri del suo governo (ImagoEconomica)

Il rapporto con i parlamentari in questo anno e mezzo non è mai stato troppo sereno, come hanno dimostrato i giorni dell’elezione del presidente della Repubblica, quando Draghi tentò maldestramente di raggiungere il Colle, non avendo però mai coltivato una relazione consolidata con l’elettorato, cioè con deputati e senatori, appartenenti a partiti politicamente commissariati dal capo del governo fin dal primo giorno.

Tant’è che alla fine Draghi, dopo aver scoperto che Camera e Senato non sono il board della Bce, è stato costretto a rinunciare, con sommo dispiacere della moglie Serenella, che aveva già raccontato l’imminente sbarco al Colle al barista di fiducia, Antonio Proietti titolare di Pagaroma. Il problema è che quando coltivi delle legittime ambizioni, poi devi potertele permettere; specie quelle ambizioni che prescrivono il voto di deputati e senatori che, per quanto sputtanati, conservano la titolarità costituzionale dell’elezione del capo dello Stato. Ma Draghi non s’è mai fidato troppo della sua maggioranza, pur essendo amplissima. Lo testimoniano i dati sull’uso della questione di fiducia analizzati da Open Polis: "Uno strumento a cui l’esecutivo ha fatto ricorso in modo sempre più consistente con il trascorrere dei mesi. Il governo Draghi infatti, nonostante l’amplissima maggioranza che lo ha sostenuto sinora, ha posto la questione di fiducia in 55 occasioni. Considerando i governi delle ultime 3 legislature, solo l’esecutivo guidato da Matteo Renzi ha fatto maggiormente ricorso alla fiducia (66). Da considerare però che tale governo è durato circa il doppio rispetto all’attuale (33 mesi)".

Se però consideriamo il dato medio di questioni di fiducia poste ogni mese, in modo da poter confrontare esecutivi che hanno avuto una durata diversa, aggiunge la ricerca di Open Polis, "vediamo che quello di Mario Draghi passa al primo posto con 3,24 voti di fiducia di media. Al secondo posto troviamo il governo Monti (3), al terzo il governo Conte II (2,25). Si tratta di dati, almeno quelli relativi agli ultimi 2 governi, certamente influenzati dall’emergenza pandemica e in particolare dalla necessità di convertire entro i tempi previsti il gran numero di decreti legge emanati per questo fine".

Appena Draghi ha finito di interloquire a colpi di badile con i senatori, Giorgia Meloni s’è lanciata a denunciarne a social unificati l’abuso di "pieni poteri". Va detto però che il capo del governo è arrivato in aula senza le mani in tasca di Matteo Renzi, quando nel 2014 annunciò al Senato che quella sarebbe stata l’ultima volta che dei senatori avrebbero votato la fiducia a un governo (la storia, come noto, è andata diversamente e un Senato ancora ce l’abbiamo), ma sopratutto senza i mojito sorseggiati al Papeete da Matteo Salvini. Diamo a Draghi quel che è di Draghi.