Roma, 3 novembre 2024 – Un reparto di neuropsichiatria infantile: padre e figlio, anzi, genitori e figli gli uni dirimpetto agli altri. E poi infermieri, dottori, visitatori: dialoghi, silenzi, rabbie, tenerezze, dolori, speranze. In questo ambiente Matteo Bussola colloca “La neve in fondo al mare” (Einaudi, 2024).
Tommy è adolescente, non mangia, è anoressico "come volesse scomparire dal mondo"; Eva, figlia di Amelia, invece ingurgita troppo, ingrassa a dismisura "come volesse seppellirsi nel suo corpo". C’è chi si taglia le braccia infierendo sulla giovane carne, e chi, come Giacomo, ha tentato di suicidarsi buttandosi dalla finestra. Eppure, sono stati tutti bambini desiderati, amati. Su di loro sono state investite tante speranze (troppe?) di un futuro radioso.
Poi, d’un tratto, l’esistenza prende un’altra dimensione. Uno tsunami si abbatte su padri e madri: si tenta di resistere, ma le ondate travolgono, massacrano. Non sai perché il tuo bambino, la tua bambina, sorridenti e gioiosi, desiderino ora morire. Sei escluso dai loro pensieri: le loro parole saranno verità o finzione? Scattano i sensi di colpa: vorresti sapere in quale attimo è avvenuta la trasformazione, e perché. Ma non lo puoi scoprire, perciò ti rimproveri, ti autoaccusi, ti flagelli. Vorresti dire mille cose a tuo figlio, rivelargli il tuo pensiero, mettere a nudo i tuoi sentimenti: ma taci, perché la sua presenza è ormai un’assenza. Non sai che parole usare, se gioveranno, se accresceranno il desiderio di autodistruzione. È difficile comprendere che questi ragazzi si fanno del male per lenire il dolore interiore, perché gli altri lo scoprano. L’anoressia di Tommy è il tentativo di sottrarre a sé stesso aspettative, progetti, obiettivi. Ed ergere la morte a fine inebriante della vita.
Un giorno però ritorni a casa dall’ospedale con le prescrizioni dei medici e il cuore soffocato da muti singhiozzi. Il tempo trascorso ti sembra confuso, irreale. Ti trovi di nuovo solo, magari con la tua compagna, ad affrontare il lavoro, i rapporti sociali, la paura crescente di non farcela, l’evidenza lapalissiana che nulla forse cambierà. Ti abbandoni ai ricordi felici. Quando accarezzavi il figlio appena nato, lo cullavi, lo guidavi nei suoi passi incerti. E poi le prime classi, i giochi, le risate, le monellerie, gli abbracci. Oh sì, gli abbracci: sentivi crescere il corpicino caldo, vitale. Ora invece scopri l’abisso della tristezza, della disperazione, lì dove non dovrebbe mai essere: nell’animo del tuo ragazzo. È come trovare "la neve in fondo al mare".