Mercoledì 24 Aprile 2024

Il partigiano americano che morì da eroe

La storia di Renato Berardinucci, arrivato in Italia a 18 anni. Si lanciò contro il plotone d’esecuzione e così due compagni riuscirono a fuggire

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di Massimo Cutò

"L’ho conosciuto nel 1939, appena arrivato dalla Pennsylvania. Era convinto, come tutti gli italiani all’estero, del fascismo e dei suoi destini; ma gli erano bastate poche settimane per disilludersi e adesso troviamo il suo nome, Renato Berardinucci, a capo di una lista di fucilati". L’articolo pubblicato il 20 dicembre del ‘44 su Risorgimento Liberale è firmato Ennio Flaiano. Uno dei pochi a tratteggiare la breve vita dello studente nato a Filadelfia nel 1921 da genitori abruzzesi, idealista diventato eroe (o antieroe) per caso e per scelta, morto a 23 anni in nome della patria. La sua parabola dimenticata emerge dalle carte, gli archivi di Ellis Island e le testimonianze raccolte dallo storico Marco Patricelli, autore de Il partigiano americano edito da Ianieri. Un libro che è racconto e risarcimento.

Marco Patricelli, chi era Berardinucci?

"Un giovanotto made in Usa, famiglia benestante, studente modello tra emigrazione, orgoglio nazionale e melting pot. Le radici erano lontane eppure presenti, il fascismo volava sulle ali luccicanti del trasvolatore Balbo. Mamma Antonietta lo portò nella terra degli avi: aveva 18 anni".

Perché questa scelta?

"Voleva che il figlio unisse la formazione del college alla cultura classica. Soprattutto arrivavano venti di guerra: la doppia cittadinanza avrebbe evitato la chiamata alle armi, qui e là".

Quale fu l’impatto con l’Italia?

"Pescara era una provincia arretrata, si arrivava alla vecchia casa di Picciano fra strade polverose, cavalli e somari. Al liceo divenne amico dello studente migliore: Hans Lichtner, ebreo fuggito da Vienna, che gli aprì gli occhi sulla propaganda".

Quando si schierò con l’antifascismo militante?

"Il 31 agosto 1943 l’apocalisse sconvolse Pescara. I Liberatori americani sganciarono 85 tonnellate di bombe. Fu un massacro. Due settimane più tardi secondo raid devastante. Per quel giovane venuto da Filadelfia fu il punto di non ritorno, tra patria di sangue e patria d’adozione".

Entrò in clandestinità?

"Mise insieme il fabbro, il manovale, il fornaio, il contadino, il sarto, il maestro. Niente nomi di battaglia, una Resistenza paesana: la banda de lu mirìcane".

Niente a che vedere con i partigiani della Brigata Maiella?

"Tutt’altra cosa. Quella era un’unità ufficiale che combatteva nei ranghi del corpo d’armata britannico e polacco".

Le imprese di Berardinucci?

"Era irrazionale, coraggioso, teatrale. Gli piaceva travestirsi: con un trucco sottrasse i fucili dall’armeria tedesca di Penne. Sulla sua testa pendeva una taglia perché, spiega Flaiano, uccise un alto ufficiale affrontando da solo un’auto tedesca".

Nell’Abruzzo cruciale?

"La fuga del re da Ortona, Mussolini prigioniero a Campo Imperatore, la linea Gustav che spaccava a metà la regione. Finché arrivarono i liberatori polacchi".

Guerra finita?

"Non per lui. Cocciuto ed entusiasta, voleva risalire la penisola. Lo seguirono in tre. Più sua madre che lo scongiurò di desistere. Ma il destino aspettava a San Pio delle Camere nell’Aquilano. Un uomo li tradì per 5mila lire e 5 chili di sale: furono condannati alla fucilazione. Messi al muro la mattina dell’11 giugno ’44, mentre davanti a loro la madre di Berardinucci veniva pestata dai soldati tedeschi".

Epilogo irrimediabile?

"La motivazione della medaglia d’oro al valore recita: con un gesto di sublime follia si scagliava armato soltanto della volontà e della fede contro il plotone d’esecuzione, dando a se stesso la morte degli eroi, ai compagni la salvezza e la libertà. Berardinucci aveva 23 anni e 10 giorni. Due compagni fuggirono. Il terzo morì con lui: Vermondo Di Federico, il bracciante ragazzino trucidato in divisa, l’unico abito che possedeva".

La vicenda ha avuto una coda drammatica.

"Nel ‘57 Vincenzo Berardinucci, padre di Renato, sbarcò in Italia per ricevere dal presidente Gronchi l’onorificenza. Poi si fece portare su una Fiat 1100 E nera a San Pio delle Camere: voleva uccidere la spia fascista che aveva tradito il figlio. L’accompagnavano il suocero e l’autista. L’impiegato comunale falsificò le carte. Quell’uomo è morto, gli dissero. Tutto finì".

C’è ancora una storia nella storia, professore: la sua.

"Renato Berardinucci si nascondeva in casa della mia prozia Nicoletta. E l’uomo che guidava la Fiat 1100 si chiamava Lucio Patricelli. Era mio padre".

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