Venerdì 26 Aprile 2024

I Fenici guardavano le stelle dall’acqua

Scoperto l’osservatorio astronomico in Sicilia, nel sito archeologico di Motya: la piscina nel tempio funzionava come lo specchio del cielo

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di Aristide

Malnati

Invocare gli dei e studiare remote costellazioni, osservando la loro immagine riflessa nell’acqua. È questo il senso di un’eccezionale scoperta che gli archeologi hanno fatto a Motya, ovvero Mozia, un sito fenicio della prima metà del primo millennio a. C. posto sull’isola di San Pantaleo, nello Stagnone di Marsala, di fronte alla costa occidentale della Sicilia, tra l’Isola Grande e la terraferma (provincia di Trapani).

I fenici – come hanno ben mostrato gli storici – furono abili navigatori e a partire dal IX-VIII secolo a. C. fondarono colonie in tutto il Mediterraneo in modo da avere basi e porti sicuri per i loro commerci: tra esse il centro urbano più celebre fu certamente Cartagine, vera e propria cittadella fortificata, sconfitta da Roma, sua acerrima rivale, solo al termine di aspri conflitti bellici (le famose guerre puniche: Cartagine venne distrutta nel 202 a. C. dalle legioni di Scipione l’africano). Ebbene Motya è uno tra i più potenti complessi urbani fenici sul mare ed è quindi dotata di un porto, riparo sicuro per le navi mercantili che solcavano il Mediterraneo con i loro carichi preziosi per l’import-export dell’epoca.

Il sito, la cui esplorazione sistematica fu iniziata nel 1873 nientemeno che da Heinrich Schliemann, fresco reduce dalla scoperta di Troia in Asia minore, anno dopo anno ha rivelato i resti di un agglomerato sontuoso con vestigia di abitazioni anche eleganti, di santuari e templi, per lo più romani (dal II sec. a. C. Motya passò sotto l’Urbe), e un notevole complesso portuale, identificato per la prima volta negli anni ‘20 del secolo scorso. Scavi sistematici a partire dal 2009, diretti dal professor Lorenzo Nigro, docente di Archeologia alla Sapienza di Roma, hanno precisato meglio questa antica struttura, risalente al VII secolo a. C.: non si tratta in realtà di un “kothon”, una bacino all’interno di un golfo naturale, pensato per dare riparo a imbarcazioni di una flotta militare, magari bisognose di un arsenale per riparare i danni subiti in battaglie navali.

Nigro e i suoi colleghi hanno immediatamente compreso di trovarsi difronte a qualcosa di diverso, ad una costruzione che unisce un aspetto pratico ad uno potentemente religioso. La struttura di Motya è una rada, o meglio una piscina artificiale delimitata da muri che la chiudono su tre lati: sicuramente può ospitare alcune imbarcazioni, ma la sua vera funzione la svolge quando è vuota.

"È una sorta di tempio sull’acqua, con all’interno una piscina d’acqua stagnante, dove la superficie, riparata da mura e terrapieni, è tranquilla. Questo per un motivo ben preciso: la superficie d’acqua, tenuta per lo più libera da imbarcazioni, fungeva da specchio vero e proprio e nelle notti stellate e con l’ausilio del chiarore della luna, rifletteva la volta celeste. La piscina di Motya si trasformava in una sorta di calendario astronomico in tempo reale", precisa Nigro commentando l’esito degli scavi e degli studi successivi ad opera dell’équipe da lui diretta. Una struttura, dunque, che appare più come un’area sacra, un tempio: ma dedicato a chi?

Statue e oggetti votivi non lasciano dubbi: la divinità venerata era Ba’al, il dio fenicio della tempesta, che corrisponde al greco Orione, che lega quindi i fenomeni atmosferici all’influsso della posizione delle costellazioni in cielo. Ecco che quindi, oltre a invocare e a fare sacrifici per propiziarsi questa divinità, gli abitanti di Motya, la cui ricchezza era legata ai traffici marittimi e al buon esito delle traversate nel Mediterraneo, pensarono di costruire un ingegnoso osservatorio astronomico per poter studiare il movimento degli astri e così prevedere l’insorgere di perturbazioni più o meno violente, ad essi legate.

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