Mercoledì 24 Aprile 2024

OLTRE ALL’ITALIA SONO NATI GRANDI VINI

Grano, ortaggi, ulivi e vitigni caratterizzano e qualificano il territorio delle storiche ‘Puglie’

OLTRE ALL’ITALIA SONO NATI GRANDI VINI

OLTRE ALL’ITALIA SONO NATI GRANDI VINI

Sulla facciata di qualche vecchia casa colonica, lungo il tracciato dell’Appia, campeggia ancora la dicitura “Strada delle Puglie”. Perché la natura di questo territorio, al di là di ogni giurisdizione, risulta tanto diversificato da sottrarsi a qualsiasi concetto di unità geografica. Questo forse aiuta a capire come le Puglie siano in testa alla classifica nazionale per la produzione di uve da tavola, da vino, olio e ortaggi. Una serie di primati che fanno di questa regione una “officina verde”, dove le colture intensive di grano duro, cotone, tabacco, frutta, hanno ormai raggiunto risultati da record. Due soli riferimenti: siamo dagli otto agli undici milioni di grano duro e dai venticinque ai trentadue milioni di quintali di pomodoro destinato all’industria conserviera.

E il vino? Le Puglie vantano ben 28 Doc e 4 Docg, di cui molte presenti sui mercati esteri. Anche se per troppi anni queste terre hanno offerto solo un vino onesto e godibile. Niente di più. E per giunta del tutto anonimo. Si diceva “vino di Puglia”, e la generica denominazione includeva l’intera regione. A dispetto di una realtà geografica (e non solo) quantomai differenziata. Perché una cosa è il Tavoliere - ovvero la Daunia o la Capitanata - e ben altra cosa sono le Murge, da quelle baresi a quelle di Brindisi e Taranto. E infine c’è il Salento, con la sua irripetibile fisionomia di terra fra due mari, nonché carico di una storia senza confronti. Il Negroamaro e il Primitivo fino agli anni Ottanta – non dico a Torino, ma a Napoli – non erano più di un nome. A prevalere era il marchio di origine, la Puglia. E questo significava vini da taglio, destinati a dare forza e longevità ai vitigni nobili del Piemonte e della Francia, piuttosto anemici.

Il nome Tavoliere non ha niente da spartire con la natura del luogo. è legato alle Tabulae censuariae, una sorta di catasto voluto dai Romani, per assoggettare quel territorio a una particolare tassazione, vista la sua straordinaria fertilità. Terra quantomai generosa, vanta sette Doc, anche se in effetti quelle strettamente legate alla provincia di Foggia sono solo cinque. Le altre due (Moscato di Trani e Aleatico di Puglia) sono in prevalenza presenti in area barese. Per il Tavoliere si va dal popolare San Severo, al più noto Cacc’è mmitte di Lucera. Un nome che richiama il vino spillato dalla botte e versato nel bicchiere. Quindi riempi, bevi, e ripeti l’operazione il più a lungo possibile. Anche questo è un blend di uve: Troia, Montepulciano, Sangiovese e Malvasia nera di Brindisi. è una produzione assai contenuta rispetto al San Severo, e nelle annate più felici sfiora il mezzo milione di bottiglie.

Abbiamo infine il Nero di Troia e il Rosso di Cerignola, quest’ultimo anche con la qualifica aggiuntiva di Riserva. A favore del quale gioca la presenza di un’attiva Cantina Sociale, ma soprattutto il richiamo turistico del territorio e la suggestione di un centro storico ben conservato. E alla particolare miniera di storia e di monumenti, propria di quest’area delle Puglie, va ricondotta anche la notorietà e il prestigio di due vini di antica tradizione: il Tavoliere e il Rosso Cerignola.

UN CONSIGLIO

Una delle piccole grandi capitali del prosciutto d’Italia è Faeto, villaggio adagiato sulle pendici dell’Appennino Dauno

I VITIGNI A CONFRONTO

Il Primitivo ma anche il Verdeca

Dalla pianura alle colline (fra i 400 e i 650 metri) che s’inseguono tra le province di Bari, Brindisi e Taranto. Sono queste Le Murge, che occupano invece la fascia centrale delle Puglie, fra il Tavoliere e il Salento, con una singolare conformazione geologica. Qui s’incontra anche la Valle d’Itria, un’ampia e aperta conca, verdissima di vigneti, punteggiata di trulli, da Martina Franca a Ostuni, Locorotondo, Cisternino, Alberobello. Qui sono di casa da sempre la vite e l’ulivo. La prima in collina, il secondo in quella pianura che sa di salsedine, a mano a mano che si avvicina al mare. Già agli inizi del Novecento, dei 28mila ettari del territorio di Martina Franca, ben oltre diecimila furono trasformati in vigneti, privilegiando non solo il Primitivo, ma anche il Verdeca e il Bianco di Alessano, fra i più antichi vitigni dell’areale. Il clima piuttosto caldo, i vitigni spesso di basso profilo, e soprattutto una forte produzione non hanno giovato, in passato, all’affermazione dei vini delle Murge. Le quali, da oltre trent’anni, hanno dichiarato guerra alla quantità per ritagliarsi un preciso segmento sul mercato dei Bianchi, in un territorio per gran parte votato ai Rossi. Valgano per tutti due sole indicazioni, il Locorotondo e il Martina Franca.

Nel Salento Negromaro e Malvasia

E veniamo al Salento, questa stretta lingua di terra, dove l’Italia finisce. Si differenzia per geografia, dialetto, riti. E non solo. Perché qui anche i vini hanno una loro sicura identità. Il territorio ha un’altitudine media, che non va oltre i cento metri. In apparenza, un elemento non certo ottimale per una buona uva. Se la pianura assicura infatti una migliore resa, spesso penalizza sul piano della qualità. Ma in questo caso, l’inclinazione del suolo – la cosiddetta giacitura – favorisce il drenaggio delle acque e la migliore esposizione al sole. Il che dà luogo a un compiuto processo di maturazione. L’identità dei vini del Salento - dal Primitivo al Negromaro alla Malvasia Nera – non è estranea agli allevamenti in massima parte ad alberello pugliese, tipico di tutto il territorio. È un’antica tecnica d’impianti, propria dei paesi caldi e poveri d’acqua, portata in Puglia come in Sicilia (l’alberello è assai diffuso anche sulle falde dell’Etna), dai Greci intorno al VI secolo a.C. Ma se è vero che un vitigno va messo in relazione col territorio in cui dà il meglio di sé - al di là del fatto che sia allevato altrove - il caso del Negroamaro non lascia dubbi. Il vino ha una storia piuttosto tormentata. Per anni infatti è stato usato in vari uvaggi, facendo da base a quei famosi Rosati di cui le Puglie, e in particolare il Salento, sono eccellenti produttori. Perché Negroamaro? La parola “nero” ripetuta due volte, in latino niger e in greco antico mavros, oppure l’ipotesi di qualche studioso, che riporta la parola “amaro” al forte gusto che sprigionano i tannini. Il Negroamaro è utizzato in 14 Doc sulle 28 presenti nelle Puglie, e il vino risulta, dopo il Merlot, con il più alto concentrato di resveratrolo, uno dei più efficaci antiossidanti.

UN CONSIGLIO

Già nell’Ottocento ai salami prodotti nelle valli Curone, Grue e Ossona venivano assegnati riconoscimenti internazionali