Giovedì 2 Maggio 2024

Sudan nel caos, il medico italiano a Khartoum: "Si spara senza tregua, ma io resto"

Franco Masini lavora con Emergency nel Paese sconvolto dal conflitto tra l’esercito regolare e i paramilitari. "Sono preoccupato, questo è il momento peggiore da quando sono qui. Ma il nostro aiuto è indispensabile"

Khartoum (Sudan), 23 aprile 2023 – “Io resto qua. A meno che Emergency non ritenga che la situazione sia così a rischio che è indispensabile evacuare, io resto, perché l’ospedale non può essere abbandonato. Siamo indispensabili. Per dire, tra poche ore dobbiamo operare una bambina di 10 anni che pesa 15 chili e ha le valvole cardiache devastate. Quindi, io non me ne vado". Franco Masini, parmense tosto, è un uomo di carattere. Dopo 40 anni all’ospedale Maggiore di Parma, prima come cardiologo e poi come capo dell’unità coronarica, dal 2013 lavora con Emergency per 3-6 mesi all’anno, in Sudan. E da due anni è fisso a Khartoum, dove è il coordinatore medico del Centro Salam di Khartoum, una delle strutture di Emergency nel Paese, il più grande ospedale di cardiochirurgia completamente gratuito di tutta l’Africa.

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Franco Masini lavora con Emergency
Franco Masini lavora con Emergency

Dottor Masini, com’è la situazione a Khartoum?

"Posso parlare solo del nostro quartiere. Siamo in una zona periferica di Khartoum, a una mezz’ora dal centro. Vediamo il fumo degli scontri nel resto della città. La nostra zona è stata interessata dai combattimenti, specialmente nella giornata della finta tregua, quando hanno combattuto per il controllo del ponte sul Nilo, a meno di un chilometro da noi. È chiaro che più gli scontri proseguono, più i rischi aumentano".

Ha paura che gli scontri possano investire il vostro quartiere?

"Preoccupazione sì, ovviamente, perché è difficile non esserlo, specialmente per i miei 550 collaboratori sudanesi e anche per i 55 internazionali, dei quali 41 italiani. Ma io non ho paura. Che faranno gli altri italiani non lo so. Con mia moglie e mio figlio, che sono a Parma, ci sentiamo e loro si fidano del mio giudizio. Noi internazionali viviamo qui, abbiamo un compound attaccato all’ospedale che in questi giorni ospita anche alcune centinaia dei dipendenti sudanesi che vivono in zone di Khartoum interessate dai combattimenti e che non possono tornare a casa. Abbiamo cibo, elettricità, abbiamo una banca del sangue e buone scorte di medicine, e ci fidiamo delle misure di sicurezza prese da Emergency. Soprattutto mi fido del riconoscimento che Emergency si è conquistata nel Paese. Noi abbiamo curato tutti, civili e militari di ogni fazione, e tutti ce lo riconoscono".

Qualcosa che può andare storto?

"È chiaro che può sempre succedere qualcosa di imprevisto. Ci possono essere gruppi di militari sbandati che possono compiere attacchi, anche saccheggi, possono arrivare colpi di artiglieria. È una guerra, nessuno può avere la certezza di restarne fuori. Ma ragionevolmente, stiamo molto meglio della popolazione civile".

Si aspettava una crisi del genere?

"In questo Paese c’è una cronica mancanza di stabilità. Il fatto che da aprile i militari dovessero cedere una fetta di potere ai civili faceva temere un innalzamento della tensione, come nel 2021, quando ci fu il colpo di Stato. Ma non a questi livelli. È il momento peggiore da quando Emergency è in Sudan".

Avete dovuto chiudere altro strutture?

"Una, l’ambulatorio pediatrico dell’enorme campo profughi di Mayo. Ma teniamo aperti gli ospedali pediatrici di Port Sudan e di Nyala, in Darfur, anche se in quest’ultima località si è combattuto praticamente davanti al nostro centro. Resistiamo. Ma speriamo che finisca alla svelta".