
Il presidente siriano Bashar al-Assad. Nel quadro il padre Hafez, morto nel 2000
Vedere vicino. Guardare lontano. Ci vorrebbe multifocalità per non affidare la soluzione della crisi siriana alla speranza ingannevole delle armi o a una ingloriosa fuga. Bashar al-Assad, il 59enne presidente siriano che i media di Stato descrivono tuttora operativo a Damasco e secondo la Cnn è invece già lontano, cerca l’illuminazione per salvare pelle, dinastia e poltrona. Ma neppure l’antica specializzazione in oculistica al prestigioso Western Eye Hospital di Londra – copertura scientifica prima di succedere al padre Hafez – sembra poterlo aiutare nella corretta valutazione dei pericoli. La sua Siria non esiste già più. Eppure lui finge di resistere, garanzia della continuità a palazzo della minoranza alauita in un Paese a maggioranza sunnita.
Nessuna risposta all’invito del presidente turco Recep Tayyp Erdogan, principale sponsor dei ribelli sunniti, per "stabilire urgentemente un dialogo con il popolo e con le opposizioni, per porre fine al conflitto con soluzione politica". Vero. Turchia e Siria sono ai ferri corti dal 2011. Ma le truppe degli insorti alle porte della Capitale, la momentanea debolezza dell’Iran e della Russia tradizionali protettori del regime, e i dichiarati appetiti di Ankara per allargare l’area di influenza turca e tutelare i propri interessi in funzione anti curda, sono fattori altamente destabilizzanti. Mosca ha ordinato ai suoi concittadini di lasciare il Paese con ogni mezzo. Un segnale gigantesco da chi, per restituire legittimità e territori ad Assad, nel 2016 aveva spianato Aleppo sotto le bombe. E anche l’Iraq non fornirà aiuti a Damasco. Agiranno solo milizie sciite.
La stessa riunione di oggi a Doha tra Turchia, Iran e Russia (resuscitando il ’formato Astana’ 2016 per la pacificazione dalla precedente guerra civile, incluse armi chimiche usate da Damasco) potrebbe semplicemente ufficializzare lo status della Siria come pedina di una più ampia strategia geopolitica. Daniele Ruvinetti (Fondazione Med Or) delinea questo scenario: "Erdogan potrebbe limitare il supporto ai ribelli, evitando un’umiliazione totale per Mosca e Teheran, in cambio di concessioni significative" estese fino "in Libia". O forse di sottintese garanzie a Mosca sul mantenimento della base navale siriana di Tartus e su quella aerea di Latakia. Patto nel caso indicibile, essendo la Turchia Paese Nato.
Assad, al potere dal Duemila, di sicuro rischia tutto in questa congiuntura. Altri rais laici dell’area mediorientale (da Saddam a Gheddafi) sono caduti velocemente per cause esterne e interne, all’improvviso soli e abbandonati. Perché tutti i regimi hanno una dinamica ricorrente: deflagrano perché sono marci dentro, sostituiti dalle forze radicali del momento, spesso con esiti non meno drammatici.
Se Assad capitolasse sotto la pressione dei ribelli (e secondo la Cia accadrà in pochi giorni), sarebbe la fine della dinasty avviata dal padre Hafez con la ’rivoluzione correttiva’ del 1970, ultima resa dei conti militare all’interno del partito Ba’th: ovvero la massima espressione del socialismo panarabo totalitario colpita nel 1966 dalla scissione tra ’sinistra’ siriana e ’destra’ irachena. Rivalità sanguinosa. Al punto che durante la guerra Iran-Iraq i bathisti siriani si schierarono con il regime clericale di Teheran. Ma quel che oggi più preoccupa gli analisti è il destino stesso della Siria: una deriva balcanica dove ogni comunità etnica o religiosa e ogni potenza protettrice proverà a controllare interi pezzi del Paese.