Mercoledì 24 Aprile 2024

L'Italia 'sovranista' preoccupa l'Europa, ma il gruppo di Visegrad è ormai un ricordo

La guerra russa in Ucraina ha rotto il fronte degli euroscettici dell'Est, che potrebbe però trarre linfa dalla vittoria di Giorgia Meloni

Il primo ministro ungherese Viktor Orban (Ansa)

Il primo ministro ungherese Viktor Orban (Ansa)

L’Italia di Giorgia Meloni viene vista da Perigi e da Berlino come un pericoloso intruso, che potrebbe dare ulteriore forza ai regimi sovranisti ed euroscettici insediatisi nell'Est Europa, dalla Polonia all'Ungheria, passando per Slovacchia e Repubblica Ceca, riuniti nel gruppo di Visegrad.

Ma il quartetto di Visegrad, ormai, esiste solo sulla carta e dopo la guerra potrebbe restare solo un fantasma del passato. L'aggressione della Russia nei confronti dell'Ucraina, le manovre di Bruxelles e della Nato al confine orientale, l’ascesa di nuovi punti di riferimento regionali e le differenze tra i leader dei quattro Paesi hanno di fatto contribuito a cambiare le carte in tavola. Il gruppo di Visegrad nasce nel febbraio del 1991 con la volontà di creare un’alleanza politica, in vista di un omogeneo sviluppo militare, culturale, economico ed energetico all'interno dell’Unione Europea. Pilastro del gruppo è infatti l’idea che Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia e Ungheria siano da sempre parte di una singola civilizzazione, condividendo tradizioni e valori culturali.

Il nome richiama l’omonima cittadina ungherese posta sulle rive del Danubio, luogo dove si tenne il primo vertice dei capi di Stato e premier di Cecoslovacchia, Polonia e Ungheria. Nel 1999, a rafforzamento della componente economica del gruppo, viene istituito il Fondo Internazionale di Visegrad con sede a Bratislava (l’unica sede ufficiale del gruppo, la cui presidenza è a rotazione e non prevede un edificio istituzionale ufficiale): il fondo ha un budget annuale di 3 milioni di euro e ha permesso un notevole incremento degli investitori esteri nell’area. La vivacità economica è stata utilizzata dal gruppo anche per imporsi in maniera più pesante nella politica europea, arrivando anche a decisioni e posizioni non in linea con la politica Ue, come ad esempio l’adozione, soprattutto da parte di Polonia e Ungheria, di una forte politica anti-immigrazione. Il quartetto, però, ha dato spazio a un crescente populismo, il quale si è spesso tramutato in una deriva autoritaria. In Ungheria, ad esempio, i governi di Viktor Orban hanno portato allo smantellamento dell’indipendenza della magistratura e della libertà di stampa, oltre che alla totale eliminazione dei diritti per la comunità Lgbt. All’Ungheria si è affiancata poi la Polonia, in un duo che da ormai molto tempo si spalleggia all’interno dell’Unione Europea.

Nonostante la storia recente abbia confermato la posizione ambigua del gruppo nei rapporti con Bruxelles, i recenti avvenimenti hanno creato delle chiare spaccature fra i quattro. Uno dei primi segnali di rottura è scaturito ben prima della guerra, dalle elezioni ceche del 2021, con l’ascesa di Petr Fiala come primo ministro. Il nuovo governo ha infatti deciso di non allinearsi con le tendenze illiberali polacche e ungheresi, e lo stesso ministro ceco degli affari europei Mikuláš Bek ha dichiarato che, attualmente, Praga ha l’obiettivo di seguire la via di Parigi e Berlino, non quella di Budapest e Varsavia. La tendenza ceca si è fatta sentire anche in Slovacchia, dove il governo antipopulista di Edvard Heger ha assorbito nuova energia dalla vittoria politica di Fiala. Alla spallata antipopulista hanno contribuito anche gli esiti delle elezioni slovene, che hanno segnato la vittoria del movimento Libertà e la conseguente nomina a premier del suo leader Robert Golob.

Un secondo punto di svolta riguarda l’attuale situazione in Ucraina. In questo frangente è emersa una forte compattezza di Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia in una posizione anti russa, mentre l’Ungheria, fortemente dipendente dal gas russo, ha optato per una posizione sempre più ambigua, con Orban che si è presentato come sostenitore di Putin fino a quando ciò è stato possibile, con accenti fortemente anti-ucraini, alla luce delle discussioni con Kyiv riguardo al trattamento della minoranza linguistica ungherese in Ucraina. Già il 30 e 31 marzo 2022 Cechia e Polonia hanno preso le distanze dalla neutralità ungherese, annunciando la loro assenza all’incontro tra i ministri della difesa dei paesi Visegrad, e la stessa ministra della difesa ceca Jana Cernochová ha condannato la posizione ungherese a favore di Putin, affermando: "Ho sempre sostenuto Visegrad e mi dispiace molto che il petrolio russo a buon mercato sia per i politici ungheresi più importante del sangue ucraino".

La guerra in Ucraina sta mostrando soprattutto le crepe del rapporto tra Budapest e Varsavia, che si è distinta come forte sostenitrice delle sanzioni contro Mosca. Questa politica consente alla Polonia di rinforzarsi sul suolo diplomatico e militare centro-europeo, come principale investitore Nato della regione e snodo centrale per gli aiuti umanitari alla popolazione ucraina. Si rinforzano così le passate posizioni di Varsavia, che già da molto tempo aveva messo in guardia sui rischi di una politica di collaborazione con Putin. Con l’acuirsi della guerra e la crescente necessità di alternative energetiche al gas russo, c'è da dubitare che il gruppo di Visegrad sopravviva.