Venerdì 26 Aprile 2024

I samurai nell'urna

In un bel romanzo del 1969, ‘Cavalli in fuga’, Yukio Mishima racconta la rivolta antimoderna di un gruppo di giovani nazionalisti giapponesi negli anni Trenta. La recessione economica, la corruzione delle classi dirigenti, la progressiva eclissi dei valori tradizionali indussero alla ribellione quel manipolo di ragazzi convinti di incarnare il meglio della nazione. Si posero il problema dei mezzi da utilizzare per realizzare il loro colpo di Stato, rigettarono, per estrema coerenza, la possibilità di usare le moderne armi da fuoco. In ossequio alla tradizione e alla loro fiera diversità, impugnarono solo le armi dei loro antenati: la spada, il pugnale e l’arco. Fu una disfatta. Quelli che non vennero uccisi si tolsero la vita secondo l’antico rituale del seppuku. Non crediamo che i grillini siano pronti a tanto osare, ma questo loro apparente rifiuto di stringere alleanze e accordi di governo con altri partiti li condanna evidentemente alla sconfitta. Più che a un ideale, la loro scelta, o, per meglio dire, la scelta imposta da Beppe Grillo a Luigi Di Maio, sembra dettata da un calcolo.

Una questione di immagine: preservare la loro, teorizzata, diversità. Mantengono così le mani pulite, ma le tengono in tasca. Rifiutano di accettare quei compromessi che da sempre rappresentano l’essenza della politica intesa come arte del possibile, evitano i rischi legati all’assunzione di responsabilità di governo (rischi fatali, come si è visto a Roma) e si accontentano di una facile rendita di posizione dai banchi dell’opposizione. È una forma di narcisismo, di infantilismo politico, di irresponsabilità nei confronti del loro stesso elettorato. Essendo evidentemente irrealistico che possano ottenere la maggioranza dei suffragi tanto da poter poi esprimere un governo omogeneo, votarli equivale a disperdere il proprio voto. Non è di questo che l’Italia ha bisogno. Siamo infatti in vista di un passaggio politico cruciale. Vale oggi quel che scrisse nel gennaio del 1948 l’ambasciatore italiano a Londra Gallarate Scotti al ministro degli Esteri Carlo Sforza: «Una domanda è oggi su tutte le bocche: quale l’Italia che emergerà delle elezioni del 18 aprile 1948? La convinzione generale è che questa data sia davvero una data storica non solo per gli italiani, ma per tutti gli europei...». Non è retorica, non è allarmismo. Agli occhi del mondo, l’Italia è appesa a un filo e se dal voto del 4 marzo non discenderanno le condizioni per costituire un governo stabile quel filo rischia di essere tagliato dalle lame della sfiducia internazionale. Come ci invita a fare il capo dello Stato, occorre perciò resistere alla pur legittima tentazione dell’astensionismo e andare a votare. Ma occorre anche votare con realismo. Cioè ispirati non da un’utopia di purezza assoluta come giovani samurai giapponesi, ma da una valutazione razionale del male minore. Votare, magari turandosi il naso come esortò a fare Indro Montanelli nel ‘76, pensando non all’ideale ma al reale, non al passato remoto ma al futuro prossimo.