Venerdì 26 Aprile 2024

Uccideva i malati: ergastolo al barelliere

Catania, iniettava aria nelle vene dei pazienti in ambulanza. Poi andava a incassare i soldi della vestizione delle salme

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di Nino Femiani

Due angeli sterminatori, due Azrael capaci di annientare persone già in forte sofferenza. Fino al 2016 indossavano il camice verde di barellieri e accompagnavano, a bordo di un’ambulanza privata, malati terminali che andavano a trascorrere gli ultimi giorni di vita a casa, tra le braccia dei loro familiari. Al primo dei due, Davide Garofalo, 46 anni, ritenuto responsabile di aver ucciso tre persone – due uomini e una donna - la prima Corte d’assise di Catania ha deciso di applicare la pena massima: ergastolo.

Carcere a vita, ben oltre i 30 anni chiesti dal pm Andrea Bonomo. Il suo collega, Agatino Scalisi, 46 anni, imputato per avere ucciso una donna in stato terminale, ha scelto di accedere al rito abbreviato. Paradossalmente, il suo procedimento è ancora pendente, impantanato nella fase dibattimentale. Tre casi di omicidio volontario accertato per Garofalo, una decina quelli sui quali sono stati raccolti indizi, cinquanta i decessi registrati dentro la "sua" ambulanza tra il 2014 e il 2016. L’inchiesta "Ambulanza della morte" fu aperta dalla Procura di Catania dopo un servizio realizzato de "Le Iene". La tecnica per uccidere è stata, invece, rivelata da un pentito che ha raccontato agli inquirenti che i due barellieri usavano un metodo mafioso sperimentato e "pulito": quello dell’iniezione d’aria sparata nelle vene del povero malcapitato. Oltre all’accusa di omicidio volontario per Garofalo si è aggiunta l’aggravante di avere favorito le consorterie mafiose della zona di Biancavilla (clan Mazzaglia-Toscano-Tomasello) e Adrano (clan Santangelo), che controllano la gestione del "caro estinto".

Sono i boss a decidere chi deve essere assunto sulle ambulanze private, in pratica un personale "finto sanitario" prono alle cosche e la cui presenza nelle corsie e nei pronto soccorso viene spesso tollerata da medici e dirigenti sanitari (tuttavia estranei alla vicenda dell’"ambulanza della morte"). Per ogni morto "dirottato" Garofalo intascava 200-300 euro dalle pompe funebri gestite dai padrini, oltre a un fuori busta che chiedeva ai familiari per "vestire il morto", mostrando anche in questo comportamento assoluto disprezzo per la vita umana e il dolore dei congiunti. A Biancavilla il meccanismo si metteva in moto quando dall’ospedale "Maria SS. Addolorata" il malato in gravi condizioni, cui restava poco da vivere, tornava a casa per spirare nel suo letto. Una sorta di pietosa concessione ai familiari del paziente. Dentro l’ambulanza quasi sempre c’era solo Garofalo (o Scalisi) che praticava la puntura in vena al malato provocandone la morte per embolia gassosa. La presenza di bolle all’interno della circolazione sanguigna provoca, infatti, in un tempo ridotto, il decesso del paziente.

È morto durate il trasporto, questa la spiegazione che il killer Garofalo dava ai parenti della vittima. "Con un assoluto disprezzo, – osserva il procuratore aggiunto Francesco Puleio – veniva anticipata la morte delle persone innescando ulteriori guadagni". Nella condanna all’ergastolo la Corte d’assise non ha riconosciuto l’aggravante della crudeltà verso le persone, ma solo quella di "avere agito con un mezzo insidioso e di avere commesso il fatto per agevolare le attività illecite" dei clan di Biancavilla e Adrano. I giudici hanno anche disposto il risarcimento danni per familiari delle vittime, a parti lese, a varie associazioni, al Comune di Biancavilla e all’Asp di Catania. Il difensore di Garofalo, l’avvocato Salvo Liotta, ha annunciato ricorso.