Sabato 27 Aprile 2024

Sotto rete come in trincea "Sono in missione per Kiev"

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di Doriano Rabotti

Che bello sarebbe, se nei cannoni si potessero mettere delle palline da tennis. Come ha fatto, non solo metaforicamente, la tennista ucraina Elina Svitolina: martedì sui campi del torneo internazionale di Monterrey, in Messico, vestita con il giallo e il blu della sua nazione ferita, ha travolto la russa Anastasia Potapova (6-2, 6-1 in un’ora). E alla fine ha spiegato perché non poteva perdere: "Ero in missione per il mio Paese, ne sento il peso sulle spalle. Vado in campo per aiutare l’Ucraina, il mio esercito, le persone che hanno bisogno".

Poche ore prima aveva annunciato di non voler giocare contro avversarie russe e bielorusse: ha cambiato idea perché la Wta, l’organizzazione che gestisce i tornei di tennis mondiali, ha cancellato l’abbinamento al proprio Paese e alla propria bandiera di russi e bielorussi. Potranno giocare solo se non avranno una patria ’visibile’.

La Svitolina non è la prima atleta ad auto-proclamarsi strumento di un destino più grande dello sport, anche se questa è forse la prima guerra in cui la visibilità dei campioni sta diventando uno strumento di pressione morale a livello mondiale.

Alcuni precedenti ormai sono studiati anche a scuola, tanto sono famosi: Jesse Owens che vinceva quattro medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino del 1936 sotto gli occhi di Hitler, ma in realtà dava uno schiaffo morale anche ai suoi connazionali razzisti. Proprio in Messico, dove ora si trova la Svitolina, alle Olimpiadi del 1968 si alzò il pugno guantato di nero di Tommie Smith e John Carlos.

Alcuni gesti simbolici sono diventati bellissimi film. Come l’ultimo Race, su Owens. O come Momenti di gloria, la storia molto romanzata della rivalità tra l’ebreo Harold Abrahams e il missionario scozzese Eric Liddel, che per motivi religiosi si rifiutò di correre i 100 metri alle Olimpiadi di Parigi del 1924, perché la gara era in programma di domenica, giorno del Signore. Addirittura tre sono i film che raccontano che cosa fece Muhammad Alì arrivando nello Zaire prima dell’incontro di boxe più famoso della storia, il rumble in the jungle che a Kinshasa lo oppose a George Foreman nel 1974. Lo Zaire che prima si chiamava Congo ed era stato una colonia belga, con un passato di atrocità. Foreman era sceso dall’aereo con il suo pastore tedesco, la stessa razza dei cani della polizia belga. Alì invece da quella scaletta, ai 10mila africani venuti ad accoglierlo, urla: "George Foreman è un belga". La folla impazzisce per Cassius Clay, e durante il match si mette a urlare: "Alì, Bomaye".

Alì, uccidilo.