Padre Angelo, il prete col fucile. "Così in Congo liberavo ostaggi"

Don Angelo tra il 1964 e il 1967 era a capo di un commando nel Congo straziato dalla guerra civile: "Ho salvato oltre mille vite. Sparavo solo per difendermi, non rinnego nulla del mio passato"

Don Angelo Pansa

Don Angelo Pansa

Roma, 24 settembre 2018 - La croce e il mitra, le preghiere prima della battaglia, gli assalti per liberare i religiosi che venivano torturati e massacrati dai ribelli di ispirazione maoista, il rewind della memoria che scorre a ritroso in un film di orrori nell’Africa dei mercenari e del post colonialismo. È un capitolo della vita di padre Angelo Pansa, 87 anni, il missionario saveriano convinto che il giorno più facile sia sempre ieri. Sull’altare in Congo celebrava la messa, sul mezzo blindato al comando dei suoi uomini era il colonnello Pansa. La vita di padre Angelo in saio e tuta mimetica fra il 1964 e il 1967 nel Congo sconvolto dalla guerra civile è diventata un romanzo di Valerio Massimo Manfredi, l’archeologo – scrittore, autore di bestsellers tradotti in tutto il mondo. Si chiama ‘Quinto comandamento (non uccidere)’. Padre Angelo inizia il suo racconto con voce pacata e l’ironia di chi non ha paura di nulla, nemmeno del Diavolo in persona. Fuori, il pomeriggio mite è scandito da un rintocco di campane.

Don Angelo Pansa davanti a una fossa comune
Don Angelo Pansa davanti a una fossa comune

Padre si rispecchia nel romanzo?

"Dalla prima all’ultima pagina. Valerio Massimo Manfredi lo ha scritto ispirandosi al mio diario e sui miei resoconti".

Lei fra il 1964 e il 1966 ha comandato un gruppo di mercenari in Congo, il Quinto Commando, per liberare i religiosi in ostaggio dei Simba subito dopo l’indipendenza dal Belgio e in appoggio al governo di Mobutu. Rifarebbe tutto?

"Rifarei tutto, nessun dubbio. Sono solo pentito di non aver trasgredito agli ordini dei miei superiori quando avrei potuto salvare altre vite".

Il Vaticano non è stato tenero con lei.

"Nel 1965 fui richiamato a Roma e Propaganda Fide, la congregazione pontificia che coordina l’attività missionaria, mi processò dopo la pubblicazione di una fotografia su Paris Match dove comparivo armato di un fucile mitragliatore. Risposi: prima di condannare domandatemi se ho usato quell’arma. Una sola volta ho sparato con l’intenzione di ammazzare ma non partì il colpo. La mia coscienza è a posto".

Ma quando vi trovavate in mezzo a un’imboscata?

"Situazione diversa. Ci attaccavano dalla giungla quando passavano in colonna, sparavano i ribelli e sparavamo anche noi per difenderci. Oppure quando ci avvicinavamo ad una missione per liberare gli ostaggi i miei mercenari dovevano aprirsi il varco con le armi. Non c’era scelta". 

Quante operazioni ha guidato?

"Molte, è difficile ricordarle tutte, l’ultima nel 1966. Ma in tante altre occasioni col mio gruppo abbiamo dovuto fronteggiare il fuoco dei ribelli, fra attacchi e imboscate. In due anni abbiamo salvato 1.400 ostaggi, compresi donne e bambini, ma ne ho sepolti 217".

Non era facile per un sacerdote guidare dei mercenari.

"I miei uomini erano per metà scelti da me e per metà forniti da un organismo sudafricano. Nel contratto si impegnavano a non commettere atti di violenza gratuiti. Li avvertivo: ‘Se trasgredite, vi sparo in testa’. Il mio Quinto Commando aveva un’ unica finalità: arrivare rapidi e decisi e prendere in consegna gli ostaggi per evitare che venissero uccisi".

Louis, il religioso che nel romanzo lascia la tonaca per sposare una ragazza africana e combatte con lei, è esistito veramente?

"Era uno dei miei migliori amici. Purtroppo l’ho perso. Non dimenticherò mai la sua morte. Ci stavamo avvicininando a una base presidiata dai cubani che assistevano i ribelli. Il terreno era minato con ordigni cinesi. Io procedevo, come sempre per primo, vedevo una mina e davo la voce al secondo dietro me e lui al terzo. Forse Louis si confuse e saltò su una mina. Lo raggiunsi che respirava ancora devastato dalle ferite, mi inginocchiai e improvvisai una messa. È stata la più corta e più profonda della mia vita. Louis spirò fra le mie braccia".

La sua fede ha mai vacillato?

"La mia fede in Gesù Cristo non ha mai vacillato, si è incrinata la mia fede verso il sacerdozio, verso la congregazione e la direzione del mio ordine. Le crisi di fede le ho superate pensando alle parole di mia mamma: chiarisci con te stesso se sei stato tradito da Gesù o dalle istituzioni religiose. Stavo anche per lasciare il sacerdozio quando a Roma tentarono di impedirmi di tornare in Africa per liberare gli ultimi due ostaggi. E io li ho salvati".

Come andò?

"Mi aiutò Piero, un mercenario italiano fidatissimo che nel libro è Jean Lautrec. E rischiai di essere ucciso anche lì. Con la mia colonna incontrammo un altro gruppo di sudafricani. Questi ultimi volevano loro stessi uccidere gli ostaggi per attribuire la colpa ai ribelli dell’ultimo ridotto e ottenere una proroga dell’ingaggio da parte del governo congolese. Fu un attimo, Piero-Lautrec, urlò di gettarmi a terrà e con una raffica di mitragiatrice uccise i tre mercenari che avevo di fronte".

Fra imboscate e assalti trovava il tempo per pregare?

"Tutte le mattine celebravo l’Eucaristia. Una volta passai nove giorni nella foresta mangiando banane e ananas e bevendo acqua dalle pozzanghere. E lì recitavo spesso il rosario".

Si trovò due volte davanti a un plotone di esecuzione.

"Una volta sì e l’altra col mitra alla schiena. Me la cavai in entrambe le occasioni".

Le immagini degli orrori vissuti in Congo le tornano alla mente?

"Per anni ho avuto gli incubi pensando ai religiosi torturati, massacrati, gettati nelle fosse comuni".

Cosa le ha lasciato l’esperienza del Congo?

"Mi ha preparato all’ esperienza dell’Amazzonia dove combattei contro i fazenderos che volevano distruggere la foresta. Fu un’altra avventura durissima".

Anche lì ha rischiato la vita?

"C’era una taglia sulla mia testa, i fazenderos mi accusavano di indurre alla ribellione gli indigeni, a loro volta sfruttati e derubati della terra. Rischiai di morire per avvelenamento".

Come?

"È spiegato all’inizio del libro. Feci una missione in solitaria per recuperare un campione di veleno usato sulla foresta. Nella fuga, inseguito da uomini armati, rimasi intossicato dalla diossina. Fui ricoverato in Italia, in coma per 28 giorni, ma me la sono cavata. E sono riuscito a innescare processi e condanne contro gli avvelenatori e il governo brasiliano".

Ripartirebbe per una missione?

"L’ho già chiesto. Posso coltivare la terra in quasiasi parte del mondo".