di Paolo Franci "No, con i russi non giochiamo. Basta chiacchiere, è il momento di fare qualcosa". Non c’è stata una sola voce fuori dal coro nel mondo del pallone polacco, quando il presidente della federazione, Cezary Kulesza, ha annunciato che, no, quella partita dei playoff per la qualificazione in Qatar contro la Russia – a Mosca il 24 marzo – la Polonia non l’avrebbe giocata. Mai. Loro, i polacchi, sanno bene cosa significa essere invasi tra migliaia di vite che si spezzano in nome di folli ambizioni di conquista. E sanno cosa significa essere invasi dai russi. È scritto col sangue nella storia dell’uomo quando, nel 1939, nazisti e stalinisti si divisero la Polonia aprendo di fatto la seconda guerra mondiale. E allora, se la Fifa "condanna" ma non fa nulla, i polacchi dialogano con Svezia – che ha deciso di non affrontare, nel caso, la Russia – e Repubblica Ceca, impegnate nello stesso gruppo dei playoff per presentare un fronte unito del "no" alla stessa Fifa. Particolarmente sentito il messaggio del portiere della Polonia e della Juve, Wojciech Szczęsny: "Mia moglie è ucraina, nelle vene di mio figlio scorre sangue ucraino, parte della famiglia è lì, molti dei miei collaboratori sono ucraini. Vedo la sofferenza sui loro volti, non posso stare fermo. E anche se il mio cuore si spezza, la coscienza non mi permette di giocare". E arriva la notizia che "l’amico di Putin", l’oligarca Roman Abramovich, boss del Chelsea, pressato da Boris Johnson, decide di lasciare la presidenza dei Blues: "Ho sempre preso decisioni tenendo a cuore il club. Rimango fedele a questi valori ed è per questo che affido alla Fondazione di beneficenza del Chelsea la gestione e la cura del club". Si intrecciano le storie, i drammi. C’è Dayana Yastremska, tennista ex numero 21 del ...
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