Giovedì 25 Aprile 2024

Lo sport in rivolta isola la Russia E Abramovich si dimette dal Chelsea

La Polonia si rifiuta di giocare a Mosca: a rischio le qualificazioni mondiali. L’oligarca amico di Putin costretto a lasciare

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di Paolo

Franci

"No, con i russi non giochiamo. Basta chiacchiere, è il momento di fare qualcosa". Non c’è stata una sola voce fuori dal coro nel mondo del pallone polacco, quando il presidente della federazione, Cezary Kulesza, ha annunciato che, no, quella partita dei playoff per la qualificazione in Qatar contro la Russia – a Mosca il 24 marzo – la Polonia non l’avrebbe giocata. Mai.

Loro, i polacchi, sanno bene cosa significa essere invasi tra migliaia di vite che si spezzano in nome di folli ambizioni di conquista. E sanno cosa significa essere invasi dai russi. È scritto col sangue nella storia dell’uomo quando, nel 1939, nazisti e stalinisti si divisero la Polonia aprendo di fatto la seconda guerra mondiale. E allora, se la Fifa "condanna" ma non fa nulla, i polacchi dialogano con Svezia – che ha deciso di non affrontare, nel caso, la Russia – e Repubblica Ceca, impegnate nello stesso gruppo dei playoff per presentare un fronte unito del "no" alla stessa Fifa. Particolarmente sentito il messaggio del portiere della Polonia e della Juve, Wojciech Szczęsny: "Mia moglie è ucraina, nelle vene di mio figlio scorre sangue ucraino, parte della famiglia è lì, molti dei miei collaboratori sono ucraini. Vedo la sofferenza sui loro volti, non posso stare fermo. E anche se il mio cuore si spezza, la coscienza non mi permette di giocare". E arriva la notizia che "l’amico di Putin", l’oligarca Roman Abramovich, boss del Chelsea, pressato da Boris Johnson, decide di lasciare la presidenza dei Blues: "Ho sempre preso decisioni tenendo a cuore il club. Rimango fedele a questi valori ed è per questo che affido alla Fondazione di beneficenza del Chelsea la gestione e la cura del club".

Si intrecciano le storie, i drammi. C’è Dayana Yastremska, tennista ex numero 21 del ranking, costretta a passare due notti sotto le bombe in un parcheggio sotterraneo di Odessa e poi spinta dai genitori a riparare in Francia con la sorellina 15enne. E c’è Andrey Rublev, tennista numero 7 del mondo che conquista la finale di Dubai e sulla telecamera che lo riprende scrive: "No war please", parole potenti che fanno il giro del mondo.

E l’ucraino Sergiy Stakhovsky, che ha appeso la racchetta poche settimane fa e ora impugna un AK 47. E poi Elina Svitolina, ucraina ex numero 3 del mondo che non riesce neanche a parlare e sui social pubblica un drammatico: "I can’t", non posso. C’è la storia del ’traditore’ Yaroslav Rakitskiy, ucraino, centrale dello Zenit San Pietroburgo, che, dopo una vita nello Shakthar Donetsk, finisce nella squadra della città di Putin. E per questo viene cancellato dalla Nazionale. Poi scoppia la guerra e lui rescinde il contratto. Forse non lo chiameranno più "traditore". Tutto questo, mentre l’effetto domino colpisce lo sport russo: cancellata la F1 a Sochi, le Olimpiadi di scacchi, la ginnastica, mentre le nostre spadiste, impegnate nella Coppa del Mondo a squadre a Sochi rinunciano a salire in pedana.