Mercoledì 24 Aprile 2024

Lavoro in carcere, telefonisti e pasticceri

Il caso di Padova. "Collegare dentro e fuori: la rieducazione passa da qui"

Padova, detenuti ricevono le prenotazioni per esami sanitari ospedale

Padova, detenuti ricevono le prenotazioni per esami sanitari ospedale

Padova, 30 settembre 2019 - Cè un dentro e un fuori nel carcere Due Palazzi di Padova. Corridoi, cancelli, ancora un labirinto di corridoi che sembra non finire mai. In fondo si arriva nei laboratori di lavoro. Ti accolgono le frasi di Dante "Fatti non foste a viver come bruti" e a destra la concezione di Sant’Agostino sulla giustizia terrena. "Quando entro qui non mi sento più in gabbia. È come se fossi fuori", dice Ahmed, uno dei 167 detenuti-lavoratori. Tre cooperative (Giotto, Work Crossing, AltraCittà) permettono loro un’assunzione regolare e uno stipendio, a seconda se l’impiego è full time o part time, che va da 600 a mille euro. Ma il ‘caso Padova’ se non è proprio unico, è certamente raro. Secondo i dati del ministero della Giustizia, aggiornati al 31 agosto, su 60.741 detenuti, i lavoratori non alle dipendenze dell’amministrazione carceraria sono appena 2.459, neanche il 4%. Ancora meno, 700, coloro che hanno un impiego vero. "È questo il problema – dice Nicola Boscoletto, presidente della Coop Giotto che opera al Due Palazzi da trent’anni –. Lavorare in carcere è considerato un premio, addirittura un privilegio, mentre dovrebbe essere la normalità".

Santino, 53 anni, è uno dei pasticceri di Giotto, alle dipendenze della cooperativa Work Crossing, e mentre impasta dolci e fa torroni, ti fissa con i suoi occhi azzurrissimi: "Ho ucciso. Lavorare mi distoglie da questo pensiero fisso". Il suicidio? "Era quasi un’ossessione all’inizio. Oggi non più. Fare il pasticciere mi aiuta tutti i giorni". Negli spazi di ‘AltraCittà’ ci accompagna Rossella Favero tra laboratori di assemblaggio, legatoria e cartotecnica, fino alla redazione del giornale Ristretti orizzonti. "I muri sono azzurri, gialli, colorati. Li hanno dipinti i detenuti per creare un’altra città, appunto, dove i reparti – racconta la presidente della cooperativa – hanno nomi di donna: Telma e Luise. Alice. Claudia. Loredana".

Brahim, 42 anni, viene dal Marocco e deve scontare 23 anni di carcere. Quando lo dice gli trema la voce, ma non ha perso la speranza: "Quando uscirò non sarò vecchissimo, potrò ancora riscattarmi. Intanto il lavoro mi dà una speranza, altrimenti non mi resterebbe che la corda". Non è l’unico a evocare quella stramaledetta corda. E i suicidi, in carcere, sono tanti. Troppi. Il dossier Antigone calcola che quest’anno fino al 25 luglio sono stati 27. Da qui, la necessità di evitare di marcire in cella senza scopo e soprattutto di riconquistare un ruolo anche agli occhi delle famiglie. Negli spazi della cooperativa Giotto c’è il call center dove i detenuti-operatori si occupano delle prenotazioni per l’ospedale di Padova e danno informazioni per la società bolognese Illumia che opera nel mercato libero dell’energia elettrica.

Lavori veri, non piccoli lavoretti per occupare il tempo. Sui muri sono appese foto della città di Padova e ci sono particolari degli affreschi della cappella degli Scrovegni che mostrano Inferno e Paradiso, vizi e virtù. "Il dentro dev’essere collegato al fuori", spiega Boscoletto. "Una volta una bambina disse a un detenuto: ‘Prima di uccidere non ci potevi pensare?’. Lui, che usciva per la prima volta in permesso dopo 17 anni, pregò di essere riportato in carcere. Non riusciva ad affrontare l’impatto con l’esterno, ed è stato proprio in quel giorno che ha iniziato a scontare la sua pena. Noi è su questo che dobbiamo agire".

Basta guardarsi intorno, e tra i pc del call center e il mega server, quasi ci si dimentica di cancelli, corridoi, sbarre alle finestre. Sembra un qualsiasi posto di lavoro del mondo. Oggi a Padova ci sono 600 detenuti, una sessantina condannati al ‘fine pena mai’. Tra di loro anche Donato Bilancia, il serial killer delle prostitute. Per ora non lavora e recentemente gli è stato negato il permesso che aveva richiesto. Il direttore del carcere Claudio Mazzeo, nel ricordare l’episodio, ci mostra una piantina del parco del carcere: "Faremo come a Bollate, piccole villette nel giardino. Così i detenuti che non ottengono il permesso di uscire potranno comunque vedere con maggiore privacy la propria famiglia". Nel progetto ci sono casette, piante, panchine. Per un attimo sembra un giardino come un altro. Sembra di essere fuori. Sembra. Ma dentro restano le criticità. La richiesta di creare più posti di lavoro e le lungaggini burocratiche, l’equilibrio tra apertura e controllo, tra vigilare e redimere, tra punire e rieducare.