Giuseppe
Tassi
Il figlio del falegname di Jesi ha fatto il suo piccolo miracolo. Comunque vada questo Europeo, Roberto Mancini ha rivitalizzato il calcio italiano e l’autostima, non solo sportiva di un popolo intero. Tutto nel segno della fede, quella che alimenta i sogni e le ambizioni tinte di azzurro. Una fede che diventa contagio, si estende al gruppo tecnico (zeppo di vecchi sampdoriani dell’era Boskov, a cominciare da Vialli), ai giocatori e alla grande platea dei telespettatori, innamorati di questa Italia e della sua Grande Bellezza. Quello di Mancini è un gruppo vero, solido, unito. Da Chiellini al giovane Raspadori ognuno crede ciecamente nel calcio predicato dal ct: aggressività, tecnica, possesso di palla e dominio del gioco, che si traduce in divertimento. In campo giocano con la gioia spontanea di bambini e cantano l’inno a squarciagola, orgogliosi di vestire la maglia azzurra e di suscitare passione sana e autentica. È una fede condivisa, come di rado succede nel calcio. Anche gli storici gruppi azzurri erano teatro di rivalità (Rivera-
Mazzola, Riva-Boninsegna, Del Piero-Totti). E il cemento umano dei mondiali vinti , nell’82 e nel 2006, fu figlio del silenzio stampa contro i giornalisti e della macchia di Calciopoli. Non è detto che per essere vincenti si debba vivere in armonia, come un solo corpo. Ma la fede nel metodo e nel leader (vedi la Samp di Boskov e il Verona di Bagnoli) aiuta a creare una grande squadra e a compensare i difetti dei singoli. Su questo credo il figlio del falegname ha costruito il suo miracolo. E ora indica la strada per portarlo fino in fondo.