di Salvatore Garzillo MEDYKA (Polonia) "Non ho molto tempo, mi stanno aspettando dall’altra parte. I miei amici stanno già combattendo". Ha una giacca che sembra troppo leggera per il freddo che lo attende, il suo sguardo salta da una parte all’altra della strada, come quello di chi ha davvero una gran fretta. Nel suo caso, è fretta di combattere. Il nome non vuole dirlo. "È già tanto, troppo, averti lasciato la mia immagine. Ma chissà cosa sarà di me. Facciamo così, tu chiamami Dima". Alle 12.10 di un lunedì di guerra, Dima varca la soglia della frontiera con l’Ucraina da Medyka, cittadina polacca che in questi giorni assiste all’esodo di centinaia di migliaia di persone che fuggono dalle bombe. Dima va nel senso opposto con uno zainetto in cui ha messo poche cose. "Il resto, quello che davvero mi serve, lo troverò lì". Quello che gli serve davvero sono le armi per affrontare i russi. "Sono un ex militare, conosco la guerra e come si combatte. Posso essere utile al mio Paese, agli amici, ai miei genitori che sono ancora in Ucraina". Sono in tanti, come lui, ad andare contro la corrente, risalendo un fiume che diventa sempre più impetuoso e imprevedibile. "Ero in vacanza in Messico con la mia compagna quando abbiamo saputo dell’attacco. Abbiamo ridotto la permanenza da 16 a 4 giorni per tornare a casa e combattere. Non avevamo scelta". È proprio la moglie a dirgli di sbrigarsi, gli tira il braccio con ansia puntando verso l’ingresso. Lei parteciperà alla resistenza, ma non vuole specificare con quale ruolo. Paura? "Tutti hanno paura – risponde Dima senza esitazione –, ma non c’è altro da fare. Scusa non posso restare ancora, ci sono persone che mi stanno aspettando". Saluta l’amico che lo ha accompagnato fino alla frontiera – "spasiba!" – e parte veloce. Anche ...
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