Venerdì 26 Aprile 2024

Il ‘randagino’ che ha dedicato la vita al male

Simone

Arminio

Ègiusto elemosinare affetto? Se lo chiede Matteo Messina Denaro, sanguinario boss di mafia, già capo del gruppo di fuoco nella stagione delle stragi di Riina e Provenzano. Ne parla a una donna che vede in lui solo un ammalato di cancro, sua stessa condizione. Una frequentazione. Due solitudini che si incontrano. Vanno insieme a cena, si scrivono, si mandano audio su WhatsApp, cercano di infondersi coraggio a vicenda. Come persone normali. D’altronde, imprendibile e misterioso per decenni, da quando lo abbiamo visto avvolto in un cappotto, solo e malato, a chi non è sembrato segretamente un po’ umano Messina Denaro? Siamo entrati in casa sua e non c’erano Kalashnikov e teste mozzate, ma gli adesivi sul frigo, i libri sul comodino. Sono arrivati i racconti di chi ignaro lo ha conosciuto. "Era un uomo gentile". Di sicuro salutava sempre. Certo, s’indignava anche: ha imprecato per il traffico, e non gli importa che le code fossero generate dalle commemorazioni della strage di Capaci, l’attentatuni in cui persero la vita Falcone, Morvillo e la loro scorta, e per cui Messina Denaro è stato condannato come mandante.

È sempre lui quello che scrive: "Mi sento abbandonato. Come un randagino con una gamba spezzata in mezzo a una pozzanghera". Lui che ha strangolato con le sue mani una donna incinta di tre mesi, Antonella Bonomo, e ha fatto rapire, tenere segregato per quasi tre anni, poi strangolare e sciogliere nell’acido un bimbo di 12 anni. Lui dietro gli attentati di Roma, di Milano, di Firenze, lui che ha già fatto intendere di non pentirsi di nulla. Lui che ha generato la solitudine, l’abbandono e il dolore in centinaia e centinaia di parenti delle sue centinaia di vittime dirette e indirette. Lui è l’uomo che ci sembra normale, il randagino nella pozzanghera. Lui che chiede affetto, perché non può più fare male. Sarebbe bene ricordarlo tutte le volte che ascoltiamo quell’audio. Perché dimenticare ci rende colpevoli.