Sabato 27 Aprile 2024

Eugenio Scalfari Informazione e impegno La rivoluzione laica del giornale-partito

È scomparso a 98 anni il fondatore de ”L’Espresso“ e de ”La Repubblica“. Tra grandi vittorie e sconfitte ha cambiato la comunicazione in Italia. Dalle ’articolesse’ domenicali alle conversazioni con Papa Francesco

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Michele

Brambilla

Eugenio Scalfari è morto ieri, 14 luglio, anniversario della Rivoluzione Francese, evento guida e luce per tutta la sua vita di giornalista, intellettuale, politico. Non credeva in Dio e quindi quasi certamente ora – se di noi umani resta qualcosa, dopo il grande salto nel buio – scriverebbe che si è trattato di un caso.

Aveva 98 anni: un secolo di cui già da tempo non v’è più traccia. Quello delle grandi ideologie. Quello della politica come passione civile. Quello dei giornalisti che diventavano imprenditori. Quello in cui una persona veniva compresa, quasi definita, dal quotidiano che portava sotto braccio.

Il suo, di quotidiano, La Repubblica, è stato molto più di un giornale. Molti lo chiamavano giornale-partito: sicuramente era una bandiera, un segno di appartenenza. A cosa? Alla sinistra, certo, o meglio a una certa sinistra: ma più precisamente a un’area culturale minoritaria nel Paese, ma destinata a diventare maggioritaria nel mondo intellettuale proprio per via (o anche per via) del successo di Repubblica.

Era un’area culturale laica, liberale e progressista, alla quale Scalfari era approdato fin da giovanissimo, nel dopoguerra, cominciando a collaborare con Il Mondo di Pannunzio. Nel 1955 avrebbe poi contribuito a fondare L’Espresso, di cui sarebbe stato direttore dal 1963 al 1968, prima di approdare in parlamento con il partito socialista. Con L’Espresso Scalfari cominciò la campagna contro le trame eversive (il “Piano Solo“, tentativo di golpe, fu svelato proprio dall’Espresso) e contro la corruzione: celeberrimo il titolo "Capitale corrotta, nazione infetta".

Repubblica venne fondata nel 1976. Fu anche quella una Rivoluzione. La presa della Bastiglia del giornalismo italiano fu un quotidiano più piccolo nel formato (il tabloid), moderno nel linguaggio, dichiaratamente di battaglia. Era un’impresa ad altissimo rischio. Per i i primi due anni, i conti faticavano. Fu il sequestro Moro, nel 1978, a permettere il grande balzo. Scalfari sposò il partito della fermezza: non si tratta con le Brigate Rosse. E vinse. Ma denunciò anche gli intrighi, i misteri di Stato, le interferenze dei servizi deviati, lo stragismo. E vinse anche qui.

Ne perse anche tante, di battaglie. Come nel 1983, quando - facendo storcere il naso a molti suoi giornalisti e molti suoi lettori - appoggiò un democristiano, Ciriaco De Mita, vedendo in lui un’intelligenza politica superiore e, soprattutto, un nemico del suo nemico, Bettino Craxi. Da ex socialista, Scalfari considerava Craxi una sorta di traditore dell’ideale. Faceva disegnare a Forattini (la vignetta in prima pagina fu un’altra delle tante novità portate da Scalfari nel giornalismo italiano) un Bettino che sembrava Benito, con il fez e gli stivaloni neri. Ma la Dc di De Mita si schiantò alle elezioni politiche e cominciò a girare la leggenda secondo la quale l’appoggio di Scalfari equivaleva a un bacio della morte.

Perché Repubblica aveva tanti lettori, anzi tanti adepti, ma pure molti detrattori. Il giornale di Scalfari fu considerato la quintessenza della sinistra snob, radical chic: la sinistra che parlava di operai dai salotti di via Veneto. Ma era comunque giornalismo, e che giornalismo: Bocca, Pansa, Biagi, Aspesi, Valli, ma anche Brera e Clerici perché pure dalle pagine dello sport doveva emergere la "superiorità culturale". Non so se tutti i suoi giornalisti lo amavano: di sicuro lo veneravano. Non era un direttore: era un patriarca. Per ogni cronista o inviato, una telefonata di Barbapapà era una medaglia da fissarsi sulla giubba.

Lasciò la direzione nel 1996, a 72 anni, e dopo aver guidato il giornale negli anni di Mani Pulite e poi all’attacco di Berlusconi, il nuovo Grande Nemico che aveva preso il posto di Craxi, perché Repubblica ha sempre avuto bisogno di indicare al suo popolo un potenziale pericolo per la democrazia. Lasciato il giornale, si dedicò a scrivere, soprattutto di filosofia. Nei suoi libri emerse quell’ego importante di cui già si era avvertita la presenza. Ma anche un’inquietudine personale. Ateo dichiarato, sembrava tuttavia quasi ossessionato dal cristianesimo. Nei suoi articoli di fondo domenicali (anzi, nelle sue articolesse: perché gli articoli di Scalfari si chiamavano così, “articolesse“) trattava spesso di teologia. Anche prendendo qualche granchio: come quando scrisse che "nel Vangelo non c’è traccia del Padre Nostro", o quando – riportando in modo maldestro un suo colloquio con Francesco – fece dire al Papa che il Bene e il Male non esistono, è la coscienza di ciascuno a decidere. Bergoglio lo attraeva, a lui confidò pure i suoi tormenti di uomo che aveva amato, anche contemporaneamente, due donne.

Un gigante comunque, che viene oggi raccontato da noi nani, in un giornalismo impoverito. Perché di grandi giornalisti ce ne sono ancora: ma uomini come lui, e come il suo amico-rivale Montanelli, erano delle bussole per milioni di italiani.