Mercoledì 24 Aprile 2024

Davigo, da accusatore ad accusato. La parabola più beffarda

A Davigo contestano il reato in cui dal 1992 in poi incappano molte procure. È la legge del contrappasso che non risparmia nessuno, nemmeno i simboli

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di Pierfrancesco

De Robertis

Se fosse una fiction ci sarebbe già il titolo pronto - La Parabola, probabilmente - ma visto che fiction non è sarà meglio attenersi a qualcosa di più sobrio. Eppure gli ingredienti della fiction ci sono tutti, e certamente sarà stato il grande sceneggiatore dell’universo a immaginarsi una coincidenza così suggestiva. Non può essere stato solo il caso. Nel giorno del trentennale di Mani pulite, la madre di tutte le inchieste, quella che ha cambiato il rapporto tra i cittadini e la giustizia, e la percezione stessa della giustizia, lui, l’elemento più carismatico del pool dei castigacorrotti, il grande accusatore, finisce tra gli accusati. Una parabola già vista, toccata in passato all’ex collega Antonio Di Pietro (poi sempre uscito indenne da tutte le indagini). Il processo a Piercamillo Davigo inizierà a metà aprile e sarà quella la sede in cui l’ex presidente dell’Anm potrà dimostrare la propria innocenza, che lui reclama già adesso, e che avrà ottime possibilità di ottenere. Almeno a osservare il grande numero di assoluzioni e di archiviazioni cui vanno incontro la maggior parte delle inchieste avviate ultimamente dai suoi colleghi, specie quelle nei confronti dei politici, per non parlare di quelle verso altri magistrati. Diversamente dai primi anni di Tangentopoli, quando i pm poterono contare su numerose confessioni spontanee perché le prove erano più facili da ottenere. E al di là del fatto che siamo nella fase preliminare del procedimento e che di qui alla pronuncia definitiva di tempo ne dovrà passare, è impossibile non pensare a questa coincidenza temporale come a una sorta di beffarda vendetta della storia. La più classica delle nemesi.

Perché proprio di una vendetta si tratta. Lui a reclamare per sé adesso le sacrosante garanzie di presunzione di innocenza per anni invece tenute in secondo piano non tanto da Davigo, quanto dal modo di fare inchieste che con la stagione di Mani pulite era iniziato, e che ha trovato proseliti in tutte le procure italiane. E non solo nelle procure, visto che il nuovo corso di cui oggi ricordiamo il trentennale ha trovato sponde potenti nella redazioni dei giornali. Prima di Mani pulite i giornalisti seguivano i processi in aula, ascoltavano giudici e avvocati, da Di Pietro in poi iniziarono a stazionare fuori dalla stanza dei pm. Con il manipulistismo è venuta meno nei fatti la differenza tra indagato, imputato e condannato, quella che distingue una società democratica da una repubblica etico-giudiziaria.

Ma a guardarci meglio dentro, nella vicenda Davigo-Csm le vendette sono anche altre, basti pensare al reato che viene contestato all’ex capo "morale" del pool, la rivelazione del segreto d’ufficio. Reato che sicuramente Davigo non avrà commesso nel caso attuale, ma che in questi trent’anni è stato certamente uno dei più praticati dagli inquirenti - pm e polizia giudiziaria - di mezza Italia senza che mai sia stata aperta un’inchiesta. Per trent’anni i giornali hanno campato, alcuni campano ancora, di verbali e intercettazioni non si sa come dalle stanze delle procure. E adesso il simbolo di quella stagione è rinviato a giudizio proprio per quel reato. Uno straordinario contrappasso dantesco, la beffarda correlazione tra colpa (presunta) e pena, tra peccato (superpresunto) e punizione, quella che danna Paolo e Francesca incapaci di resistere alle passioni, a essere per sempre travolti dalla bufera. Ecco, se Dante avesse immaginato un pm all’inferno, l’avrebbe forse pensato muto, incapace di rivelare nemmeno un piccolo segreto d’ufficio.